c'è ogni ora un treno per l'eterno.
Arrivo e so solo: stazione.
Non è il caso di sciogliere i fagotti.
Su tutto e tutti: occhi senza sguardo,
indifferenti. Fuori! in salvo!
in terza classe, via dall'afa soffocante
delle sale d'attesa per signore, dall'odore
di polpette riscaldate, guance
intorpidite... Più in là, anima,
avanti, pure nel fango, solo - via!
Via da questa fatale falsità:
di bigodini, pannolini,
calamistri arroventati,
capelli bruciacchiati,
cappelli, cuffiette,
eau-de-toilette,
di felicità volgari,
coniugali (klein wenig!)
- "Dov'è la caffettiera?" -
di biscotti, cuscini, matrone,
di balie, bagni, bonnes.
Non voglio aspettare l'ultima mia ora
in questa scatola di copri femminili.
Voglio che il treno rida e corra:
anche la morte non ha classe!
Allo sbaraglio, a rompicollo, a vuoto, - fino
a stordirsi! "Dio, questa gentaglia!..."
E al pellegrino che racconta: "All'altro mondo..."
senza sapere cosa, urlare: "Meglio!"
***
Piattaforma. Traversine. Ultimo ramo
tra le mani. Lo lascio. Tardi
per tenersi. Traverse. Rotaie. Di troppe
labbra esausta. E stelle.
Oltre la luce di tutti i pianeti
ormai scomparsi - chi li ha mai contati? -
vedo soltanto: fine della corsa.
Non è il caso di sciogliersi in singhiozzi.
Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, traduzione di Serena Vitale