giovedì 31 ottobre 2013

L'Isar non lo sa

L'Isar non lo sa. In confronto al Danubio e al Mississippi
l'Isar è solo un ruscello. Ma nemmeno un ruscello francese
presso il quale, al tempo di Luigi XIV, le contesse
si davano appuntamento con gli stallieri reali.
Un modesto ruscello tedesco che continua a ricordare le orge delle SS.
L'Isar non lo sa. Che in questi giorni scorre più
nel mio cuore che per Monaco.

Neppure Monaco lo sa. Che in questi giorni l'Isar
con tutti i suoi ponti è stato trasportato a Sarajevo
perché quella che ora passeggia lungo le sue rive sia più vicino possibile al mio cuore.
Giovedì restituirò l'Isar a Monaco.
Se io posso stare cinque giorni senza di lei (ma posso?)
anche Monaco potrà stare senza l'Isar!

1962


Izet Sarajlic, Chi ha fatto il turno di notte, Einaudi

Che fine ha fatto la spesa

La seconda volta, quel giorno, che la madre
L’ha chiamato, gli ha detto:
«Non ho più un grammo di forza. Non farei altro
Che starmene stesa a letto.»

«Hai preso le pillole del ferro?», ha voluto sapere lui.
Lo voleva sapere sul serio. Ogni giorno pregava,
senza speranza, che la cura del ferro funzionasse.
«Sì, ma mi fanno venire solo fame.
E qui non c’è niente da mangiare.»

Le ha ricordato che quella mattina
Avevano fatto la spesa per ore. Portato a casa
Ottanta dollari di provviste, da riempire
La credenza e il frigorifero.
«In quest’accidenti di casa non c’è altro da mangiare
Che mortadella e formaggini«, ha detto lei.
La voce le tremava di rabbia. «Niente!»
«E come sta la gatta? Come sta Kitty?»
Anche a lui tremava la voce. Doveva
Distrarla dal cibo; un argomento che
Non provocava altro che angoscia.

«Kitty», ha detto la madre. «Kitty, qua.
Kitty, Kitty. Non mi risponde, tesoro.
Non ne sono tanto sicura, ma mi sa
Che è finita nel cestello della lavatrice
Mentre mettevo dentro i panni. E prima che
Mi dimentichi: quella lavatrice fa
Un rumore strano. Mi sa che c’è qualcosa
Che non va, Kitty! Niente, proprio non
Risponde. Tesoro, ho tanta paura.
Ho paura di tutto. Aiutami, ti prego.
Poi torna pure a fare quello che stavi
Facendo. Qualsiasi cosa sia
Di così importante da giustificare
La pena che mi sono presa
Per metterti al mondo.»


R. Carver, Orientarsi con le stelle, minimum fax

martedì 22 ottobre 2013

Aiutomatto

[Ho sempre saputo che avrei scritto una cosa del genere. Di più, volevo scriverla da secoli, ma non avevo mai l'idea giusta, la motivazione, il coraggio. Per questo regalo a me stessa devo ringraziare l'ansa duodenale e il pancreas che sono stati la mia epifania joyciana. Alla fine non è niente di che, sempre le stesse cose, ma stavolta speriamo davvero di averla finita.]


Problema: il Nero muove e il Bianco matta.


«Io esco, vado a prendere delle verdure al supermercato», ho detto.

«D’accordo», ha detto lei, ancora un po’ intontita. Mi sono chiusa il portone di casa alle spalle e mi è scivolato un peso dal cuore, sono sollevata. Finalmente, finalmente svincolata, finalmente libera!

Ho fatto la mia mossa, miss Fischer, e ora tocca a te. Sei libera di agire come ti pare, io ho fatto quel che dovevo fare e mi sono comportata bene, una vera gentildonna, sissignori. Ti lascio la mossa finale, lo scacco. Perché ti ho fatta vincere, io, Kasparov dei poveri? Perché è giusto così.

Ho messo la partita nelle tue mani. Cosa aspetti, su, è un colpo troppo semplice, non puoi sbagliare. Non fare quella faccia, non provare a fare la samaritana con me, non è nella tua natura. Fa’ la tua mossa: tornatene a casa. Accidenti, non sto dicendo mica che non m’importa, che mi lascia indifferente… voglio dire che lo capisco.

venerdì 18 ottobre 2013

Poema della fine [14]

Pendio. Per pavidi sentieri
di pecore – al fragore
della città. Tre ragazze in salita.
Sfrontate. Ridenti. Di te

Ridono – col trionfale mezzogiorno
del ventre. Risate come
creste d’onda. Ridono per le tue
 maschili, superflue, ignominiose –

Lacrime. Risibili, visibili
anche nella pioggia. Due lune.
Due fiumi. Gemme infamanti
sul bronzo del campione.

Per le tue estreme
e prime – oh, continua! –
lacrime: perle
del mio diadema.

Non abbasso la testa.
Tra buio e rovesci
le fisso. Guardate, bevete,
marionette di Venere!

Il nostro legame è il più stretto
dei talami nuziali!
E il Cantico dei Cantici
lascia a noi la parola – a noi,

creature senza storia.
E Salomone si commuove: quanto
più alto del giacere insieme
è il comune pianto!

E nelle cave onde di nebbia
vai – la schiena curva, il passo uguale –
senza tracce, muto,

come affonda una nave.


Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, trad. Serena Vitale

giovedì 17 ottobre 2013

Poema della fine [13]

Così si affilano i coltelli
Sulla pietra, così si spazza via
La segatura. Sotto i miei palmi
Qualcosa di fradicio, gonfio.

Dov’è la celebrata coppia: forza virile, secca forza!
Sotto il mio palmo fiotti
Di lacrime – non pioggia!

Di quali seduzioni ormai parlare?
Ogni mio avere – in lacrime!
Dopo i tuoi occhi-diamanti,
dopo questi torrenti nei palmi

nono resta più nulla
da perdere. E solo
carezze, carezze,
carezze sul volto.

Siamo tutte così noi Marine,
polacche: superbe.
Dopo i tuoi occhi d’aquila
Che grondano nelle mie mani…

Piangi? Caro,
prendo io tutto il peso! Perdona!
Qualcosa di caldo, di grande
– Salato, indifeso – nel palmo!

Tremende lacrime maschili:
mazzate sulla nuca! Piangi!
Ritroverai con altre
Il pudore smarrito.

Noi? Due gocce
Della stessa acqua…
Morta conchiglia –
Labbra su labbra.

Bagnate.
Di atrepice
Sanno.
«Ma dimmi, e domani
Quando

Mi sveglio?...»


M. Cvetaeva, Dopo la Russia, trad. Serena Vitale

domenica 13 ottobre 2013

Poesia n.38

Sì! Ora è deciso. Senza ritorno
Ho lasciato i campi nativi.
Ormai non più con l’alato fogliame
Canteranno su di me i pioppi.

La bassa casa senza di me si ingobbirà,
Il mio vecchio cane è da tempo crepato.
Nelle tortuose vie di Mosca
Dio ha deciso, si vede, che io morirò.

Amo questa città intricata,
Non mi importa se è flaccida o decrepita.
La sonnolenta Asia d’oro
Riposa sulle sue cupole.

E quando di notte splende la luna,
Quando splende… Lo sa il diavolo come!
Vedo, con la testa penzolante,
Per un vicolo verso la solita bettola.

Rumore e fracasso nell’orribile tana,
Per tutta l’intera notte, fino all’alba,
Io leggo poesie alle prostitute
E mi do all’alcool con i banditi.

Il cuore batte più spesso e più spesso,
E già io parlo a sproposito:
«Io sono, come voi, uno rovinato,
Ormai non posso più tornare indietro.»

La bassa casa senza di me si ingobbirà,
Il mio vecchio cane è da tempo crepato.
Nelle tortuose vie di Mosca
Dio ha deciso, si vede, che io morirò.

(1922)


S. Esenin, Poesie e poemetti, BUR


mercoledì 9 ottobre 2013

Poema della fine [12]

Fitta criniera sugli occhi
la pioggia. Colline. Alle spalle
i sobborghi. Siamo
fuori città.

C'è la città, ma non per noi.
Matrigna - non madre!
Bisogna fermarsi: oltre
non si può andare. Qui

bisogna crepare. Campi.
Steccati. La vita è sobborgo.
Costruite casette felici
con fiori, con orti!

Causa perduta
in partenza, signori:
chi è che resiste
così fuori mano?

E sotto i rovesci, gli scrosci
di un acquazzone impazzito,
ci separiamo: la prima cosa
che facciamo insieme!

Anche a Giobbe, Signore,
chiedevi tanto in cambio?
Ti è andata male: noi siamo
fuori città...

Fuori città! Oltre - bastioni
e barriere. La vita è dove
nulla si può. Prigione.
Quartiere di ebrei.

Erranti? È mille volte
più degno. Giacché
ai non serpenti la vita
è pogróm. Viva

di rinnegati soltanto,
di Giuda! Meglio
di un lebbrosario!
O all'inferno! Purché

non nella vita:
pascolo di agnelli
per il boia! Dormitorio
di apostati e marrani!

Straccio con le mie mani
il fogli di residenza
nell'esistenza. Vendetta
per lo scudo di Davide.

Ghetto. Fossato.
Non aspettarti pietà! Nel nostro, 
nel più cristiano dei mondi - 
ogni poeta è giudeo!


Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, trad. Serena Vitale

martedì 8 ottobre 2013

Poema della fine [11]

Perdere tutto in un colpo:
niente di più pulito...
Sobborghi. Confini
di giorni, ferite,

carezze (carcasse
di corpi e di case).

Rispetto le villette vuote
come una vecchia madre.
Perché è già fare - svuotarsi!
Chi è deserto non può.

(Case per villeggianti
e amanti. Case di - assenti.)

Solo non trasalire 
quando il coltello apre.
Periferia: per i feriti 
squarcio di cicatrici.

Giacché - bando a parole
sontuose - l'amore è sutura,

non benda. Non scudo - sutura.
Ah, non chiedere aiuto!
È lo stesso filo che inchioda i morti
alla terra, il punto che mi lega

a te: e lo dirà il tempo:
se scempio, se doppio.

In ogni modo, caro: per orli, per bordi, per
cuciture, stracci, brandelli...
Di buono c'è che si è aperta
da sola: di colpo, senza sfilacci.

E nelle pieghe c'è carne
viva -non marcio.

Oh, non perde chi strappa!
È vittoria lo squarcio.
Sobborghi - divorzi
di fronti, memorie.

Vento di esecuzioni capitali.
Verdetto di periferie.

Oh, non perde chi scappa
quando si accende l'aurora.
Io ti ho cucito una vita intera -
di notte, senza imbastirla.
Non arrabbiarti se ora la trovi 
un po' storta... Sobborghi:

laceri bordi di anime
sfilate dal corpo,
scucite... Violento,
feroce è il passo

dei sobborghi. Lo senti, sull'argilla
fradicia: stivale del destino?
... I miei punti alla buona giudica tu,
caro, e il vivo filo tenace

perdona... Guarda:
l'ultimo lampione!

"Qui?" sguardo come
congiura. Sguardo di razze
inferiori. "Andiamo sulla montagna -
per l'ultima volta?"...



Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, trad. Serena Vitale