mercoledì 19 febbraio 2014

Tu non tormentarmi con la freddezza

Tu non tormentarmi con la freddezza
e non chiedermi, quanti anni ho,
ossessionato da una pesante epilessia,
sono stanco nell'anima, come uno scheletro giallo.

C'è stato un tempo, quando dai sobborghi
io sognavo infantilmente - fumosamente,
che sarei diventato ricco e famoso
e che tutti mi avrebbero amato.

Sì! Io sono ricco, e ricco di troppo.
Avevo un cilindro, e adesso  non l'ho più
mi è rimasta solo una pettìna
e un paio di scarpe a punta alla moda scalcagnate.

E la mia fama non è peggiore, -
da Mosca fino ai barboni di Parigi
il mio nome incute orrore,
come una bestemmia grossa, da barboni.

E l'amore, non è una faccenda divertente?
Tu baci, e le labbra sono come di latta.
Lo so, il mio sentimento è più che maturo,
e il tuo sentimento non riesce a fiorire.

Per rattristarmi adesso è ancora presto,
Ma, anche se c'è la tristezza - non è un guaio!
Più dorata delle tue trecce la giovane atrepice
fruscia sui kurgany.

Vorrei ritornare in quei luoghi,
in modo che al mormorio della  giovane atrepice
potessi affondare per sempre in una incertezza
e sognare come un ragazzino - in un fumo.

Ma sognare qualcosa d'altro, di nuovo, 
incompreso alla terra e all'erba,
che il cuore non possa esprimere a parole
e l'uomo non sappia dargli un nome.

1923


Sergej A. Esenin, Poemi e poemetti, BUR

venerdì 7 febbraio 2014

Che cosa dovrei fare

Sono sicura che esiste una parola apposita per questa cosa che sto facendo.
Dunque, mentre aspetto di dare un esame e leggo questa fanfiction per cui, come si dice, c'ho un sacco di feels (la qual cosa non mi capitava da tempi immemorabili), appunto cose a destra e sinistra nella speranza di non perdere il ritmo. Un racconto al mese mi farebbe felice, ecco.
In ordine di priorità:

- Un racconto che doveva essere il racconto del mese di Gennaio ma poi non lo è stato.  Daje!
- Il primo dei racconti per quest'idea che mi era venuta illo tempore mentre studiavo il moltiplicatore controcorrente.
- Il secondo racconto, possibilmente, dato che almeno per questi due ho le idee chiare.
- Dare una forma decente a quella schifezza di prologo lì.
- Trovare un titolo per tutta questa roba, cosa non proprio semplicissima.

Facciamo entro Giugno. Tra l'altro, anche se non pare, c'è gente insospettabile e insospettata - da parte mia almeno - che lo legge, 'sto coso. Quindi ciao lettori, siete bellissimi. Se tutto va bene il prossimo racconto tra due settimane, se va male a Marzo.

Edit del nove Marzo: date le circostanze, potrebbe volerci un po' più di tempo. Un po'.


giovedì 6 febbraio 2014

Diluvio


Non è che l’idea mi convincesse molto, ma quali altre possibilità avevamo? I suoi occhi mi chiedevano questo e i miei ammettevano: nessuna. Così siamo entrate, ed eccoci qui. Lei ha coperto in pochi passi la distanza fra la panca e la porta, io ho lasciato a terra l’ombrello e mi sono guardata intorno in cerca di un posto per me. Avevo l’imbarazzo della scelta: non c’era nessuno, giusto due o tre persone. Così, desolata e buia, aveva un’aria anche più solenne.
Da fuori sentivamo venire giù l’acqua con tanta forza che credevo fosse lì lì per infrangere le vetrate e sommergerci tutti; i rumori, poi, rimbalzavano da una parete all’altra e questo certo non aiutava. Nessun problema, comunque: bisognava soltanto aspettare.
Pensai che forse non era il caso di lasciare il mio ombrello, ormai zuppo e inutile, per terra, come fosse un volgare ingresso qualunque, così mi alzai per riprenderlo. La gomma sotto la suola delle mie scarpe faceva un rumore ridicolo, del tutto fuori luogo. Nel tragitto di ritorno saltellai quasi sulle punte per evitare la frizione, anche se nessuno diede l’impressione di avermi notato. Mi lasciai cadere sull’ultima sedia dell’ultima fila, rigirandomi il manico dell’ombrello fra le gambe.
Ero sempre più stanca, non mi sforzavo nemmeno di tenere le spalle dritte, nonostante fossimo in un luogo pubblico; aspettavo, mogia e in silenzio. Una donna si voltò. Forse si chiedeva, come me, che senso avesse rimanere lì, ma anche lei si rassegnò alla risposta che mi era stata data prima: non ci sono altre possibilità. Nessuna che valesse un viaggio là fuori, con l’inferno che c’era.
Come ho detto prima, quando entrammo non c’era nessuno, ma piano piano i posti cominciarono a riempirsi. Ogni volta che arrivava qualcuno lo guardavo bene in faccia, dritto negli occhi, per capire cosa l’avesse portato lì e più o meno avevano tutti la stessa risposta da darmi: meglio crepare qua dentro che tornare fuori. Meglio un evento altamente improbabile che il nulla assoluto. Mi colpì un uomo che entrò di corsa, schizzando acqua dappertutto – aveva i capelli, il cappotto e le scarpe fradici – con gli occhi sgranati, circa la stessa espressione che dovevo aver avuto io; pensai che forse lui un motivo vero ce l’aveva, per essere entrato. Ma poi lo vidi darsi un tono e avanzare nella fila centrale con fare sicuro, come un generale che raccoglie gli onori; mi aspettavo che si voltasse verso di noi, battesse le mani e dicesse qualche cosa ispirata e incoraggiante da un momento all’altro, per come si muoveva. Lasciai perdere la gente che entrava.
Non sapevo neanche che ore fossero, quanto tempo fosse passato e questo pensiero mi innervosiva un po’. Alzai la testa in cerca della ragazza con cui ero entrata ma non riuscii a rintracciarla, chissà dove s’era seduta. Avanti, mi dissi. O forse se n’era andata senza di me, mi aveva ingannata. Non avevo la forza di alzarmi e cercarla. Che cosa avrebbero letto le persone sedute nei miei occhi? Un bel niente, ecco che cosa.
Pioveva più forte, o almeno mi sembrava. Mollai l’ombrello a terra e nessuno se ne accorse. Cominciavano ad agitarsi. Ci siamo, dicevano i loro occhi – le loro nuche  e i profili, in verità, per quello che vedevo –, ci siamo. Ebbi paura anche io, tutto a un tratto. Forse perché ero seduta vicino alla porta. Pensai che sarebbe stato bello poter dividere quella paura con qualcuno, ma niente, non riuscivo a mettermi in piedi e a nessuno era venuto in mente di sedersi all’ultima fila.
La prima vetrata a sinistra si ruppe cogliendoci tutti di sorpresa. Ci fu un po’ di scompiglio, nessuno voleva essere il primo ad andarsene; vidi la fila corrispondente travolta dall’acqua, da una statua e dalla porticina del confessionale. C’era un casino tremendo per terra e io cominciavo a sentire i calzini zuppi e le dita dei piedi ghiacciate. Non ebbi il riflesso di correre via. Una donna allungò una mano verso di me, i suoi occhi dicevano: alzati, vieni via da lì!

Urlavano tutti ormai. Vidi il mio ombrello seguire la scia dei banchi e schiantarsi assieme a loro contro la parete. Probabilmente anche io mi stavo muovendo. Di sicuro la donna non riusciva a guardarmi in faccia, con tutto quello che stava venendo giù. Non posso, le gridai, non posso.