giovedì 11 dicembre 2014

Se questo fosse un racconto consequenziale

Se questo fosse un racconto consequenziale le cose accadrebbero in maniera ordinata. Con la parola cose intendo eventi semplici, come può essere l’ andare da A a B: dal punto A ci si può muovere soltanto verso B, non esiste che si vada a finire sulla Z, così come da B si arriva a C e da C si va a finire a D. Un diagramma di flusso, un esercizio di logica. Una serie di eventi concatenati. Ho fame quindi mangio, ho sonno quindi dormo. Voglio una cosa, quindi me la prendo.

Recarsi in bagno per lavarsi i capelli può ancora rientrare nella sfera della consequenzialità: ho i capelli sporchi, li lavo; anche indossare gli orecchini e passarsi il rossetto sulle labbra (devo uscire di casa, mi rendo presentabile), meno spruzzarsi addosso il profumo delle grandi occasioni, quello che fa la sua bella figura nella confezione esposta nella vetrinetta del bagno. Un profumo da collezione; questo è più difficile da incastrare nella scaletta. Si suppone che la fermata al fornaio faccia parte delle premesse, il sacchetto con i pezzi di focaccia caldi si inserisce bene nello spazio fra “stavo facendo una passeggiata” e “ti ho pensato mentre ascoltavo il telegiornale”; ci sta proprio comodo, in effetti.

A questo punto tocca inserire un elemento casuale, un bivio. If-then, in programmazione. Se la porta del palazzo è aperta proseguiamo, se la porta del palazzo è chiusa tiriamo dritto facendo finta di niente e poi dietrofront. Tra cento metri svoltare l’angolo. Se questo fosse un racconto consequenziale non avrei nessuna preferenza e compirei quest’ultimo tragitto a passo regolare, nella più totale pace dei sensi. Ma si dà il caso che questo non sia un racconto consequenziale. Fa’ che la porta sia aperta.

La trappola è credere che per un meccanicismo superiore le cose vadano da sé; o più volgarmente convincersi che sì, deve accadere per forza, le premesse ci sono. È logica. Ad ogni livello la convinzione si rafforza sempre più, così il trovare la porta aperta fa nascere una potentissima bolla di sicurezza proprio al centro del petto, dove tengo il sacchetto, e da lì questa si spande tutt’intorno, al punto che nel salire le scale del primo piano non ho paura di formulare il bivio successivo.

Tre piani di scale, un palazzo verniciato di giallino – giallo senape, alquanto appropriato al tono della visita: macchie color senape suona certo meglio di macchie color crema. Nessuno si sognerebbe mai di dire macchie color crema, sarebbero al massimo degli screzi color crema, dei riflessi color crema. Se non c’è nessuno in casa giro i tacchi e torno sui miei passi, se è in casa mi fermerò a parlare, entrerò con nonchalance e offrirò le focacce che ho comprato per strada.

Terza porta a sinistra, oltre il quadro con le barchette in riva al mare, zerbino rettangolare con la cornice rossa. Se questo fosse un racconto consequenziale non avrei nessuna paura di premere il pulsante sopra il nome “Gallo” e non trovare nessuno in casa. Non starei lì per un po’, ferma, per ascoltare cosa succede al di là della porta, capire se c’è qualcuno in casa; dondolarsi sui tacchi; decidere se bussare o suonare il campanello. Il campanello è più formale e questa non è una visita formale. Questa è una visita che necessita di giustificazioni, di conseguenze logiche, di essere legittimata – agli occhi di chi, poi? – e di solito le visite formali non necessitano di questo tipo di cose. Se questo fosse un racconto consequenziale, se avessi accumulato sufficienti premesse da legittimare quello che sto facendo, se fossi cioè sicura di essere esattamente al posto giusto e che nessuno seduto nelle ultime file possa alzarsi e interrompere la dimostrazione dicendo “non è possibile!”, busserei con le nocche un paio di volte e sarei sicura che la porta mi verrebbe aperta senza bisogno di domandare chi è. Suono il campanello.

Eccola qui la consequenzialità, il primum movens di tutta la catena, il motivo per cui bisogna costruire premesse e cercare d’indirizzare le conseguenze. In tutta la sua bellezza androgina, completo di pantofole da casa invernali, grigie. La solita maglietta nera di una taglia più grande, i soliti jeans, le solite braccia ossute. Specialmente – e lì vanno i miei occhi – i soliti capelli senza capo né coda. Prossima mossa: giustificare la visita e spiegare perché sto occupando lo zerbino.

«Ho visto che il Torino vince tre a uno, si qualifica per l’Europa.»

Annuisce con aria grave, oserei dire con partecipazione. Lo sa già, ha passato il pomeriggio a guardare la partita, sappiamo tutti che non ha smesso di fissare il televisore finché l’arbitro non ha sancito la fine. Potrebbe persino aver partecipato all’euforia collettiva del quartiere. Non ha oltrepassato la soglia della porta, perciò non mi sta ricacciando indietro; non ha fatto una piega circa le focacce, perciò non si sta chiedendo cosa diavolo stia facendo lì – o non ritiene legittimo domandarlo ad alta voce. Si tira indietro per farmi passare, vedo che storce il naso quando lo sorpasso. Del resto si sapeva che il profumo sarebbe stato più difficile da far quadrare.

Se questo fosse un racconto consequenziale arrivati a questo punto non ci sarebbe bisogno di spiegare in che modo si giunge al successivo, cosa sottendono le ore successive, cosa succede dopo che le focacce sono state apprezzate, dopo che ci si è detti due parole. Invece non importa che cosa blatera lo studente dell’ultima fila col suo quaderno in mano, tutte le premesse, tutte le menate –chiamiamo le cose col loro nome – sulla legittimità e la logica e la progressione obbligata delle cose non spiegano come mai in questo momento, in questo esatto momento ed in questo luogo preciso qualcuno ha deciso di dire che sì, è giusto comunque, ha deciso di lasciar perdere le dimostrazioni, ha deciso che non gli importa se la strada per passare da F a G prevedeva un’altra sequenza, ha deciso di arrivarci comunque. Se questo fosse un racconto consequenziale la sua camera e il suo cuscino non avrebbero lo stesso profumo della boccetta da collezione che ho tirato fuori prima di uscire.

Ma qual era allora il significato dei tentennamenti davanti alla porta, delle riflessioni sul colore dei muri del palazzo, insomma di tutte le insicurezze che hanno preceduto questo slancio di passione, questa fiducia nell’altro non pienamente legittimata?

Comincio a domandarmelo dopo le prime quarantotto ore, nelle quali non segue nessun messaggio, nessuna chiamata, nessuna comparsata sul mio pianerottolo. Nessuna zazzera di capelli oltre lo spioncino della porta, nessun vassoio di pasticcini sorretto dalle dita più pallide che abbia mai visto. Mi dico che è questione di tempo perché ha scelto di ignorare i motivi per cui non avrei dovuto essere lì, quel giorno, a casa sua, tutte le obiezioni, le circostanze, il fatto che nella sua vita ci fosse una persona con un profumo diverso.

Il quarto giorno, vincendo l’impulso di correre di nuovo sul quel pianerottolo e bussare alla porta, ripercorro gli eventi, mi chiedo cosa ho sbagliato. Dove sta l’errore, nelle premesse o nella valutazione delle conseguenze? D’improvviso la scintilla, l’intuizione, il cambio di prospettiva. La risposta sta dall’altra parte della porta, in quella maglietta informe e nei calzini a righe spaiati, nel vedersi comparire davanti una ragazza in cerca di affetto, mendicante, non doversi sforzare nel costruire delle premesse, accontentarsi di quelle che lei ha messo su in maniera goffa e raffazzonata. Gettare in quel momento, nello stesso istante in cui infili la mano nel sacchetto per prendere il pezzo di focaccia bianca, nuove premesse, mascherarle ai suoi occhi. Farle credere di essere uscito fuori dallo schema. Lei che non riesce a passare da G ad H e tu che già vedi la fine della strada.

In effetti questo è un racconto consequenziale, dopotutto.

venerdì 14 novembre 2014

Notte di luna

Paesaggio
Ci sarà la luna.
Ce ne sta
già un po'.
Eccola che pende piena nell'aria.
È Dio, probabilmente,
che con un meraviglioso
cucchiaio d'argento
rimesta la zuppa di pesce delle stelle.

[1916]

Vladimir V. Majakovskij, Poesie, BUR Rizzoli

sabato 23 agosto 2014

Un amore felice

Un amore felice. È normale?
È serio? È utile?
Che se ne fa il mondo di due esseri
che non vedono il mondo?

Innalzati l’uno verso l’altro senza alcun merito,
i primi qualunque tra un milione, ma convinti
che doveva andare così – in premio di che? Di nulla;
la luce giunge da nessun luogo –
perché proprio su questi, e non su altri?
Ciò offende la giustizia? Sì.
Ciò infrange i principi accumulati con cura?
Butta giù la morale dal piedistallo? Sì, infrange e butta giù.

Guardate i due felici:
se almeno dissimulassero un po’,
si fingessero depressi, confortando così gli amici!
Sentite come ridono – è un insulto.
In che lingua parlano – comprensibile all’apparenza.
E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,
quei bizzarri doveri reciproci che s’inventano –
sembra un complotto contro l’umanità!

È difficile immaginare dove si finirebbe
se il loro esempio fosse imitabile.
Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,
di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,
chi vorrebbe restare più nel cerchio?

Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,
capita, in fondo, di rado.

Chi non conosce l’amore felice
dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.

Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.


Wislawa Szymborska, La gioia di scrivere, 2009, Adelphi, trad. Pietro Marchesani

giovedì 31 luglio 2014

Restiamo a casa

Michele Nardella è un buono a nulla, pensò Giacinta. Non c’era niente da fare, la macchia d’umidità era lì, sul soffitto; la vedeva anche solo grazie alla luce della luna, sommata a quella proveniente dall’abat-jour; senza contare poi i problemi agli occhi che si portava dietro da almeno vent’anni. Miopia, astigmatismo, ipermetropia, uno valeva l’altro… il succo era che senza occhiali vedeva poco e niente, ed era comunque abbastanza per riconoscerne il contorno. Vernice professionale un corno, trattamento antimuffa dei miei stivali. La fissava da almeno un quarto d’ora, stesa a pancia in su; non sapeva che ore fossero e si stava convincendo che anche quella notte sarebbe passata così: un quarto d’ora il soffitto, mezz’ora di rosario, di nuovo il soffitto e poi cosa? La coroncina alla Divina Misericordia, quella al Pane Eucaristico, nella speranza di essere talmente stanca da cadere nel sonno per sfinimento.

sabato 28 giugno 2014

La chitarra

Comincia il pianto
della chitarra.
Si rompono i calici 
dell'alba.
Comincia il pianto
della chitarra.
È inutile 
calmarla.
Piange monotona 
come piange l'acqua,
come piange il vento
sulla nevicata.
È impossibile
calmarla.
Piange per cose
lontane.
Sabbia del Sud rovente
che chiede camelie bianche. 
Piange freccia senza bersaglio,
la sera senza domani,
e il primo uccello morto
sopra il ramo.
Oh chitarra!
Cuore trafitto
da cinque spade.

Federico Garcìa Lorca, Poema del cante jondo, 1931, trad. Lorenzo Blini

mercoledì 30 aprile 2014

Il pianto della scavatrice [6]

Nella vampa abbandonata
del sole mattutino - che riarde,
ormai, radendo i cantieri, sugli infissi

riscaldati - disperate
vibrazioni raschiano il silenzio
che perdutamente sa di vecchio latte,

di piazzette vuote, d’innocenza.
Già almeno dalle sette, quel vibrare
cresce col sole. Povera presenza

d’una dozzina d'anziani operai,
con gli stracci e le canottiere arsi
dal sudore, le cui voci rare,

le cui lotte contro gli sparsi
blocchi di fango, le colate di terra,
sembrano in quel tremito disfarsi.

Ma tra gli scoppi testardi della
benna, che cieca sembra, cieca
sgretola, cieca afferra,

quasi non avesse meta,
un urlo improvviso, umano,
nasce, e a tratti si ripete,

così pazzo di dolore, che, umano,
subito non sembra più, e ridiventa
morto stridore. Poi, piano,

rinasce, nella luce violenta,
tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
urlo che solo chi è morente,

nell’ultimo istante, può gettare
in questo sole che crudele ancora splende
già addolcito da un po' d'aria di mare...

A gridare è, straziata
da mesi e anni di mattutini
sudori - accompagnata

dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco
sterro sconvolto, o, nel breve confine

dell’orizzonte novecentesco,
tutto il quartiere... È la città,
sprofondata in un chiarore di festa,

- è il mondo. Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch'è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch'è spento dolore.

Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante

di ferirci: è qui, che brucia
in ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiducia

che ci dà vita, nell'impeto gobettiano
verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell'altro fronte umano,

il loro rosso straccio di speranza.

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

domenica 27 aprile 2014

Il pianto della scavatrice [5]

Un po’ di pace basta a rivelare
dentro il cuore l’angoscia,
limpida, come il fondo del mare

in un giorno di sole. Ne riconosci,
senza provarlo, il male
lì, nel tuo letto, petto, cosce

e piedi abbandonati, quale
un crocifisso - o quale Noè
ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro

dell'allegria dei figli, che
su lui, i forti, i puri, si divertono...
il giorno è ormai su di te,

nella stanza come un leone dormente.

Per quali strade il cuore
si trova pieno, perfetto anche in questa
mescolanza di beatitudine e dolore?

Un po’ di pace... E in te ridesta
è la guerra, è Dio. Si distendono
appena le passioni, si chiude la fresca

ferita appena, che già tu spendi
l'anima, che pareva tutta spesa,
in azioni di sogno che non rendono

niente... Ecco, se acceso
alla speranza - che, vecchio leone
puzzolente di vodka, dall’offesa

sua Russia giura Krusciov al mondo -
ecco che tu ti accorgi che sogni.
Sembra bruciare nel felice agosto

di pace, ogni tua passione, ogni
tuo interiore tormento,
ogni tua ingenua vergogna

di non essere - nel sentimento -
al punto in cui il mondo si rinnova.
Anzi, quel nuovo soffio di vento

ti ricaccia indietro, dove
ogni vento cade: e lì, tumore
che si ricrea, ritrovi

il vecchio crogiolo d’amore,
il senso, lo spavento, la gioia.
E proprio in quel sopore

è la luce... in quella incoscienza
d'infante, d'animale o ingenuo libertino
è la purezza... i più eroici

furori in quella fuga, il più divino
sentimento in quel basso atto umano
consumato nel sonno mattutino.

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

venerdì 25 aprile 2014

Il pianto della scavatrice [4]

Mi stringe contro il suo vecchio vello,
che profuma di bosco, e mi posa
il muso con le sue zanne di verro

o errante orso dal fiato di rosa,
sulla bocca: e intorno a me la stanza
è una radura, la coltre corrosa

dagli ultimi sudori giovanili, danza
come un velame di pollini... E infatti
cammino per una strada che avanza

tra i primi prati primaverili, sfatti
in una luce di paradiso...
Trasportato dall'onda dei passi,

questa che lascio alle spalle, lieve e misero,
non è la periferia di Roma: “Viva
Mexico!” è scritto a calce o inciso

sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
decrepiti, leggeri come osso, ai confini
di un bruciante cielo senza un brivido.

Ecco, in cima a una collina
fra le ondulazioni, miste alle nubi,
di una vecchia catena appenninica,

la città, mezza vuota, benché sia l'ora
della mattina, quando vanno le donne
alla spesa - o del vespro che indora

i bambini che corrono con le mamme
fuori dai cortili della scuola.
Da un gran silenzio le strade sono invase:

si perdono i selciati un po' sconnessi,
vecchi come il tempo, grigi come il tempo,
e due lunghi listoni di pietra

corrono lungo le strade, lucidi e spenti.
Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
qualche vecchia, qualche ragazzetto

perduto nei suoi giuochi, dove
i portali di un dolce Cinquecento
s'aprano sereni, o un pozzetto

con bestioline intarsiate sui bordi
posi sopra la povera erba,
in qualche bivio o canto dimenticato.

Si apre sulla cima del colle l'erma
piazza del comune, e fra casa
e casa, oltre un muretto, e il verde

d'un grande castagno, si vede
lo spazio della valle: ma non la valle.
Uno spazio che tremola celeste

o appena cereo... Ma il Corso continua,
oltre quella familiare piazzetta
sospesa nel cielo appenninico:

s’interna fra case più strette, scende
un po’ a mezza costa: e più in basso
- quando le barocche casette diradano

ecco apparire la valle - e il deserto.
Ancora solo qualche passo
verso la svolta, dove la strada

è già tra nudi praticelli erti
e ricciuti. A manca, contro il pendio,
quasi fosse crollata la chiesa,

si alza gremita di affreschi, azzurri,
rossi, un'abside, pesta di volute
lungo le cancellate cicatrici

del crollo - da cui soltanto essa,
l'immensa conchiglia, sia rimasta
a spalancarsi contro il cielo.

È lì, da oltre la valle, dal deserto,
che prende a soffiare un'aria, lieve, disperata,
che incendia la pelle di dolcezza...

È come quegli odori che, dai campi
bagnati di fresco, o dalle rive di un fiume,
soffiano sulla città nei primi

giorni di bel tempo: e tu
non li riconosci, ma impazzito
quasi di rimpianto, cerchi di capire

se siano di un fuoco acceso sulla brina,
oppure di uve o nespole perdute
in qualche granaio intiepidito

dal sole della stupenda mattina.
Io grido di gioia, così ferito
in fondo ai polmoni da quell’aria

che come un tepore o una luce
respiro guardando la vallata.

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

mercoledì 23 aprile 2014

Il pianto della scavatrice [3]

E ora rincaso, ricco di quegli anni
così nuovi che non avrei mai pensato
di saperli vecchi in un'anima
     
a essi lontana, come a ogni passato.
Salgo i viali del Gianicolo, fermo
da un bivio liberty, a un largo alberato,
     
a un troncone di mura - ormai al termine
della città sull'ondulata pianura
che si apre sul mare. E mi rigermina
     
nell'anima - inerte e scura
come la notte abbandonata al profumo
una semenza ormai troppo matura
     
per dare ancora frutto, nel cumulo
di una vita tornata stanca e acerba...
Ecco Villa Pamphili, e nel lume
     
che tranquillo riverbera
sui nuovi muri, la via dove abito.
Presso la mia casa, su un'erba
     
ridotta a un'oscura bava,
una traccia sulle voragini scavate
di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia
     
di distruzione - rampa contro radi palazzi
e pezzi di cielo, inanimata,
una scavatrice...
     
Che pena m'invade, davanti a questi attrezzi
supini, sparsi qua e là nel fango,
davanti a questo canovaccio rosso
     
che pende a un cavalletto, nell'angolo
dove la notte sembra più triste?
Perché, a questa spenta tinta di sangue,
     
la mia coscienza così ciecamente resiste,
si nasconde, quasi per un ossesso
rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?
     
Perché dentro in me è lo stesso senso
di giornate per sempre inadempite
che è nel morto firmamento
     
in cui sbianca questa scavatrice?
     
Mi spoglio in una delle mille stanze
dove a via Fonteiana si dorme.
Su tutto puoi scavare, tempo: speranze
     
passioni. Ma non su queste forme
pure della vita... Si riduce
ad esse l'uomo, quando colme
     
siano esperienza e fiducia
nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia,
che io credevo persi in una luce 

di necessità, e che ora so così liberi!
     
Insieme al cuore, allora, pei difficili
casi che ne avevano sperduto
il corso verso un destino umano,
     
guadagnando in ardore la chiarezza
negata, e in ingenuità
il negato equilibrio - alla chiarezza
     
all'equilibrio giungeva anche,
in quei giorni, la mente. E il cieco
rimpianto, segno di ogni mia
     
lotta col mondo, respingevano, ecco,
adulte benché inesperte ideologie...
Si faceva, il mondo, soggetto
     
non più di mistero ma di storia.
Si moltiplicava per mille la gioia
del conoscerlo - come
     
ogni uomo, umilmente, conosce.
Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,
furono vivi nelle vive esperienze.
     
Mutò la materia di un decennio d'oscura
vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò
che più pareva essere ideale figura
     
a una ideale generazione;
in ogni pagina, in ogni riga
che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia,
     
c'era quel fervore, quella presunzione,
quella gratitudine. Nuovo
nella mia nuova condizione
     
di vecchio lavoro e di vecchia miseria,
i pochi amici che venivano
da me, nelle mattine o nelle sere
     
dimenticate sul Penitenziario,
mi videro dentro una luce viva:
mite, violento rivoluzionario
     
nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva.


Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

giovedì 17 aprile 2014

Il pianto della scavatrice [2]


Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
     
e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
     
era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte
     
ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte...
     
Passano l'olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l'impolverata merce che pareva
     
frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.
     
Rinnovato dal mondo nuovo,
libero - una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtà
     
che umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà.
     
Un'anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall'allegria
     
di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,
     
e però maturato dall'esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo
     
di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
     
venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall'agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo
     
che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,
    
bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.
     
Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là,
le povere voci senza eco
     
di donnette venute dai monti
Sabini, dall'Adriatico, e qua
accampate, ormai con torme
     
di deperiti e duri ragazzini
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,
     
i soli africani, le piogge agitate
che rendevano torrenti di fango
le strade, gli autobus ai capolinea
     
affondati nel loro angolo
tra un'ultima striscia d'erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio...
     
era il centro del mondo, com'era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa
     
maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro - era,
     
chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita
     
nella sua luce più attuale:
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario,
     
come la vuole il rozzo giornale
della cellula, l'ultimo
sventolio del rotocalco: osso
     
dell'esistenza quotidiana,
pura, per essere fin troppo
prossima, assoluta per essere
     
fin troppo miseramente umana.

mercoledì 16 aprile 2014

Il pianto della scavatrice [1]

Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d'esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri - in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,
che m'hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d'estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell'avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognun, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

lassù, un po' di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell'estate.
Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d'incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
- sotto festoni di luci ormai sole -

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l'anima era invasa

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.



Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

sabato 29 marzo 2014

Antigene

[Perché la sindrome pre-mestruale è una cosa seria]


Questa storia è cominciata due mesi fa, diciamo. Posso indicare con molta lucidità anche il momento preciso: una sera in cui avevamo ospiti e non vedevamo l’ora che se ne andassero.
Abbiamo aspettato che i nostri amici oltrepassassero la porta di casa, poi ci siamo guardate negli occhi come a dire “lo facciamo?”, per darci coraggio. Marta si vergognava, così come si vergognava da morire quella volta che in un negozio di abbigliamento 0-12 anni ha dovuto chiedere alla commessa: «Una tutina, per favore.»
Ha dei problemi con i vezzeggiativi e in generale con le parole un po’ sdolcinate, te ne accorgerai. Per lo meno, all’epoca ne aveva.

martedì 18 marzo 2014

Le 3,16 e mezzo...

Dovrei essere un grande poeta
E il pomeriggio casco dal sonno
So che la morte mi viene addosso
Come un toro gigantesco
E il pomeriggio casco dal sonno
So di guerre e di uomini che si battono nell’arena
Apprezzo la buona cucina, il vino e le donne
E il pomeriggio casco dal sonno,
mi piego al sole dietro una tenda gialla
mi chiedo dove sono finite le mosche dell’estate
ricordo la morte sanguinosa di Hemingway
e il pomeriggio casco dal sonno.

Un giorno non cascherò dal sonno, il pomeriggio,
un giorno scriverò una poesia che di quelle colline laggiù
farà vulcani
ma ora casco dal sonno, il pomeriggio,
e qualcuno mi chiede: «Bukowski, che ore sono?»
e io dico: «le 3,16 e mezzo».
Mi sento in colpa, mi sento odioso, inutile,
pazzo, mi sento
cascare dal sonno il pomeriggio,
bombardano le chiese, okay, va bene,
nel parco i bimbi cavalcano i ponies, okay, va bene,
le biblioteche sono piene di migliaia di libri di scienza,
una gran musica aspetta dentro la radio vicina
e il pomeriggio io casco dal sonno,
ho in me questa tomba che dice:
ah, gli altri facciano pure, vincano pure,
lasciatemi dormire,
la saggezza è nelle tenebre
spazzare nelle tenebre come scope,
vado dove sono andate le mosche dell’estate,
acchiappatemi se vi riesce.


Charles Bukowski

mercoledì 19 febbraio 2014

Tu non tormentarmi con la freddezza

Tu non tormentarmi con la freddezza
e non chiedermi, quanti anni ho,
ossessionato da una pesante epilessia,
sono stanco nell'anima, come uno scheletro giallo.

C'è stato un tempo, quando dai sobborghi
io sognavo infantilmente - fumosamente,
che sarei diventato ricco e famoso
e che tutti mi avrebbero amato.

Sì! Io sono ricco, e ricco di troppo.
Avevo un cilindro, e adesso  non l'ho più
mi è rimasta solo una pettìna
e un paio di scarpe a punta alla moda scalcagnate.

E la mia fama non è peggiore, -
da Mosca fino ai barboni di Parigi
il mio nome incute orrore,
come una bestemmia grossa, da barboni.

E l'amore, non è una faccenda divertente?
Tu baci, e le labbra sono come di latta.
Lo so, il mio sentimento è più che maturo,
e il tuo sentimento non riesce a fiorire.

Per rattristarmi adesso è ancora presto,
Ma, anche se c'è la tristezza - non è un guaio!
Più dorata delle tue trecce la giovane atrepice
fruscia sui kurgany.

Vorrei ritornare in quei luoghi,
in modo che al mormorio della  giovane atrepice
potessi affondare per sempre in una incertezza
e sognare come un ragazzino - in un fumo.

Ma sognare qualcosa d'altro, di nuovo, 
incompreso alla terra e all'erba,
che il cuore non possa esprimere a parole
e l'uomo non sappia dargli un nome.

1923


Sergej A. Esenin, Poemi e poemetti, BUR

venerdì 7 febbraio 2014

Che cosa dovrei fare

Sono sicura che esiste una parola apposita per questa cosa che sto facendo.
Dunque, mentre aspetto di dare un esame e leggo questa fanfiction per cui, come si dice, c'ho un sacco di feels (la qual cosa non mi capitava da tempi immemorabili), appunto cose a destra e sinistra nella speranza di non perdere il ritmo. Un racconto al mese mi farebbe felice, ecco.
In ordine di priorità:

- Un racconto che doveva essere il racconto del mese di Gennaio ma poi non lo è stato.  Daje!
- Il primo dei racconti per quest'idea che mi era venuta illo tempore mentre studiavo il moltiplicatore controcorrente.
- Il secondo racconto, possibilmente, dato che almeno per questi due ho le idee chiare.
- Dare una forma decente a quella schifezza di prologo lì.
- Trovare un titolo per tutta questa roba, cosa non proprio semplicissima.

Facciamo entro Giugno. Tra l'altro, anche se non pare, c'è gente insospettabile e insospettata - da parte mia almeno - che lo legge, 'sto coso. Quindi ciao lettori, siete bellissimi. Se tutto va bene il prossimo racconto tra due settimane, se va male a Marzo.

Edit del nove Marzo: date le circostanze, potrebbe volerci un po' più di tempo. Un po'.


giovedì 6 febbraio 2014

Diluvio


Non è che l’idea mi convincesse molto, ma quali altre possibilità avevamo? I suoi occhi mi chiedevano questo e i miei ammettevano: nessuna. Così siamo entrate, ed eccoci qui. Lei ha coperto in pochi passi la distanza fra la panca e la porta, io ho lasciato a terra l’ombrello e mi sono guardata intorno in cerca di un posto per me. Avevo l’imbarazzo della scelta: non c’era nessuno, giusto due o tre persone. Così, desolata e buia, aveva un’aria anche più solenne.
Da fuori sentivamo venire giù l’acqua con tanta forza che credevo fosse lì lì per infrangere le vetrate e sommergerci tutti; i rumori, poi, rimbalzavano da una parete all’altra e questo certo non aiutava. Nessun problema, comunque: bisognava soltanto aspettare.
Pensai che forse non era il caso di lasciare il mio ombrello, ormai zuppo e inutile, per terra, come fosse un volgare ingresso qualunque, così mi alzai per riprenderlo. La gomma sotto la suola delle mie scarpe faceva un rumore ridicolo, del tutto fuori luogo. Nel tragitto di ritorno saltellai quasi sulle punte per evitare la frizione, anche se nessuno diede l’impressione di avermi notato. Mi lasciai cadere sull’ultima sedia dell’ultima fila, rigirandomi il manico dell’ombrello fra le gambe.
Ero sempre più stanca, non mi sforzavo nemmeno di tenere le spalle dritte, nonostante fossimo in un luogo pubblico; aspettavo, mogia e in silenzio. Una donna si voltò. Forse si chiedeva, come me, che senso avesse rimanere lì, ma anche lei si rassegnò alla risposta che mi era stata data prima: non ci sono altre possibilità. Nessuna che valesse un viaggio là fuori, con l’inferno che c’era.
Come ho detto prima, quando entrammo non c’era nessuno, ma piano piano i posti cominciarono a riempirsi. Ogni volta che arrivava qualcuno lo guardavo bene in faccia, dritto negli occhi, per capire cosa l’avesse portato lì e più o meno avevano tutti la stessa risposta da darmi: meglio crepare qua dentro che tornare fuori. Meglio un evento altamente improbabile che il nulla assoluto. Mi colpì un uomo che entrò di corsa, schizzando acqua dappertutto – aveva i capelli, il cappotto e le scarpe fradici – con gli occhi sgranati, circa la stessa espressione che dovevo aver avuto io; pensai che forse lui un motivo vero ce l’aveva, per essere entrato. Ma poi lo vidi darsi un tono e avanzare nella fila centrale con fare sicuro, come un generale che raccoglie gli onori; mi aspettavo che si voltasse verso di noi, battesse le mani e dicesse qualche cosa ispirata e incoraggiante da un momento all’altro, per come si muoveva. Lasciai perdere la gente che entrava.
Non sapevo neanche che ore fossero, quanto tempo fosse passato e questo pensiero mi innervosiva un po’. Alzai la testa in cerca della ragazza con cui ero entrata ma non riuscii a rintracciarla, chissà dove s’era seduta. Avanti, mi dissi. O forse se n’era andata senza di me, mi aveva ingannata. Non avevo la forza di alzarmi e cercarla. Che cosa avrebbero letto le persone sedute nei miei occhi? Un bel niente, ecco che cosa.
Pioveva più forte, o almeno mi sembrava. Mollai l’ombrello a terra e nessuno se ne accorse. Cominciavano ad agitarsi. Ci siamo, dicevano i loro occhi – le loro nuche  e i profili, in verità, per quello che vedevo –, ci siamo. Ebbi paura anche io, tutto a un tratto. Forse perché ero seduta vicino alla porta. Pensai che sarebbe stato bello poter dividere quella paura con qualcuno, ma niente, non riuscivo a mettermi in piedi e a nessuno era venuto in mente di sedersi all’ultima fila.
La prima vetrata a sinistra si ruppe cogliendoci tutti di sorpresa. Ci fu un po’ di scompiglio, nessuno voleva essere il primo ad andarsene; vidi la fila corrispondente travolta dall’acqua, da una statua e dalla porticina del confessionale. C’era un casino tremendo per terra e io cominciavo a sentire i calzini zuppi e le dita dei piedi ghiacciate. Non ebbi il riflesso di correre via. Una donna allungò una mano verso di me, i suoi occhi dicevano: alzati, vieni via da lì!

Urlavano tutti ormai. Vidi il mio ombrello seguire la scia dei banchi e schiantarsi assieme a loro contro la parete. Probabilmente anche io mi stavo muovendo. Di sicuro la donna non riusciva a guardarmi in faccia, con tutto quello che stava venendo giù. Non posso, le gridai, non posso.

sabato 25 gennaio 2014

All'amato se stesso dedica queste righe l'autore

Quattro.
Pesanti come un colpo.
«A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio».
Ma uno
Come me
Dove potrà ficcarsi?
Dove mi si è apprestata una tana?

S’io fossi
Piccolo
Come il Grande Oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde,
con l’alta marea carezzando la luna.
Dove trovare un’amata
Uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!

Oh, s’io fossi povero!
Come un miliardario!
Che cos’è il denaro per l’anima?
Un ladro insaziabile si annida in essa.
All’orda sfrenata dei miei desideri
Non basta l’oro di tutte le Californie.

S’io fossi balbuziente
Come Dante
O Petrarca!
Accendere l’anima per una sola!
Ordinarle coi versi di struggersi in cenere!
E le parole
E il mio amore
Sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente,
senza lasciar traccia, vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.

Oh, s’io fossi
Silenzioso
Come il tuono,
gemerei,
stringendo con un brivido il decrepito eremo della terra.
Se urlerò a squarciagola
Io
Con la mia voce immensa,
le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto sulla malinconia.

Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
Se fossi
Appannato
Come il sole!
Che bisogno ho io
Di abbeverare col mio splendore
Il grembo dimagrato della terra!

Passerò,
trascinando il mio enorme amore.
In quale notte
Delirante,
malaticcia,
da quali Golia fui concepito,
così grande
e così inutile?


1916

Vladimir V. Majakovskij

venerdì 10 gennaio 2014

Notte d'inverno

Tormenta, tormenta su tutta la terra
fino agli ultimi confini.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.

Come uno svolio di moscerini, 
d'estate, su una fiamma,
così i fiocchi da fuori irrompevano
sul telaio della finestra.

La tormenta imprimeva sul vetro
circoli e frecce.
Una candela bruciava sul tavolo, 
una candela bruciava.

Sul soffitto illuminato
si coricavano le ombre.
Incroci di braccia, incroci di gambe,
incrocio di destini.

E due scarpette cadevano
con un colpo sul pavimento, 
e dal lume la cera a lagrime
gocciolava sull'abito.

E tutto in una caligine di neve
canuta e bianca si perdeva.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.

Da un angolo sulla candela un alito,
e la febbre della tentazione
come un angelo alzava due ali
a forma di croce.

La tormenta durò tutto febbraio,
e ininterrottamente
una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.


Boris Pasternak, Il dottor Živago, trad. Mario Socrate