martedì 3 febbraio 2015

Educazione

Michele entrò in cucina, luogo in cui di solito non era ammesso, perché si era sentito chiamare. Non ebbe neanche il tempo di guardarsi intorno, fra i vapori dei fornelli, e chiedersi chi mai poteva aver bisogno di lui, che sua nonna gli aveva già afferrato il braccio. Aveva la mano umida e Michele un po’ si dispiacque per la sorte toccata al suo maglione.

«Sono finte le olive, devi scendere nel sottano e prenderne altre scatole.»

Un’informazione confidenziale sussurratagli all’orecchio, un compito importante, assegnato proprio a lui. Michele annuì e chinò la testa per passare oltre sua zia Rosa, che reggeva una pirofila all’apparenza pesante. Zia Anna era l’addetta alla carne – che a lui non piaceva e quindi snobbava – e stava chiedendo se per favore si poteva aprire un po’ la finestra, perché stava impazzendo. Era tutta rossa in viso e si era tirata su le maniche del golf, in effetti. Qualcuna fece notare:

«L’aria fa male alla schiena di mamma.»

Zia Anna ebbe una pronta e secca risposta:

«E infatti mamma non dovrebbe stare lì.»

«Vero, non dovrebbe neanche cucinare.»

«Sì mamma, vai a sederti.»

Presagendo la colluttazione (verbale e non) che sarebbe seguita, Michele sgattaiolò verso la porta, giusto prima che sua nonna cominciasse ad alzare la voce. Non aveva fatto due passi che ricordò di non aver domandato se le olive bisognava prenderle di colore nero o di colore verde. Era un dettaglio importante, fece dietrofront. Facevano ancora proclami circa il fatto che la mamma non dovesse star lì a cucinare, che ci avrebbero pensato loro, ma di fatto nessuna aveva abbandonato la propria postazione.
Per ottenere l’attenzione di sua nonna dovette andarle vicino e così respirare l’odore dei cavoli che stava pelando.

«Di che colore devo prenderle, le olive?»

«Sullo scaffale in alto a destra.»

Perplesso, ma intuendo che non era il momento di fare domande, lasciò la cucina. Fosse dipeso da lui, sarebbe anche tornato di nuovo a chiedere precisamente quanti barattoli servivano e – magari in quel caso avrebbe alzato il tono della voce – se ci volevano le olive nere o le olive verdi, ma non voleva che sua nonna pensasse che era un incapace senza spirito d’iniziativa. Pensò che avrebbe deciso sul momento, in base alla disponibilità delle risorse.



Chiusasi la porta alle spalle, gli toccava attraversare il corridoio buio, tratto che compì con più rapidità del dovuto: non andava granché d’accordo con i corridoi, specie se poco illuminati. Prese il mazzo di chiavi appeso all’ingresso e aprì la porta cercando di non farsi notare dalla gente radunata in sala da pranzo. La sala da pranzo, vista da lì, sembrava un mondo a parte: ordinata, vi regnava la giusta temperatura, c’era la giusta quantità di gente – forse distribuitasi in maniera più ragionevole.

Erano i mariti e i bambini più piccoli. Michele per sua sfortuna si collocava in una fascia d’età per cui era o troppo piccolo per poter avere una conversazione seria con qualcuno o troppo grande perché il suo interlocutore avesse la capacità di rispondergli, e questo lo condannava alla noia durante i pranzi in famiglia. La stanza piena, il contrasto col corridoio… sembrava di scaldarsi solo guardandola. Forse era per la disposizione dei mobili, o per via dell’albero di Natale messo a sinistra. Un mondo a parte, ordinato, luminoso, caldo. Pulito. Michele intravide suo zio Paul, il marito di zia Rosa, intento a fumare dando le spalle a tutti.

«Michele! Michele, vieni qui, dove vai?»

Schivò la presa di zio Lino per infilarsi nella fessura tra il portone e le scale. Una volta zio Lino gli aveva domandato se non preferisse venire con lui a farsi un giro piuttosto che essere smollato a casa di sua nonna. Michele aveva risposto che gli andava benissimo stare a casa di nonna, così come in quel momento gli andava benissimo essere stato spedito a prendere le olive. Era molto chiaro chi deteneva il potere in quella casa e non era certo suo zio Paul che fumava alla finestra dietro l’albero di Natale.

Vedeva sua nonna e le sue zie affaccendarsi in cucina e gli sembravano così solide, così compatte, così sicure di sé e di quel che dovevano fare. Sapevano sempre che cosa fare. Essere preso da parte e ingaggiato per recuperare le cibarie che mancavano significava far parte di quella sorta di corporazione, essere dalla parte giusta, dalla parte di quelli che sanno come si fanno le cose.
Vai a prendere le olive nel sottano. La sua maestra d’italiano aveva caldeggiato l’acquisto di un vocabolario qualsiasi, che fosse abbastanza piccolo da potere esser portato ogni giorno nello zaino.
«Devi cercare sempre le parole di cui non conosci il significato.»
Benissimo, le aveva cercate; o ci aveva provato. Non aveva trovato la parola sottano sul suo vocabolario, ovviamente. Suo padre lo aveva condotto nel suo studio e gli aveva mostrato un dizionario molto più grande, verde, ben rilegato, che aveva sprigionato un sacco di polvere quando l’avevano poggiato sulla scrivania; lì aveva trovato la parola che cercava. Sottano: che sta sotto, inferiore. In Abruzzo, Puglia e Calabria, tipo di abitazione popolare a livello stradale, di una o due stanze, equivalente al basso napoletano.

Per strada faceva freddo, certo, ma stare lì sotto era come entrare in un frigorifero a pozzetto. Michele rimpianse di non aver preso il giaccone quando aprì la prima porta e percorse il corridoio; questo era particolarmente stretto e umido e doveva percorrerlo tutto quanto perché la porta che cercava, di un grigio lucido, era l’ultima  a sinistra.

Accese la luce e cercò di farsi strada in fretta fra le varie cose – alcune sensate, altre meno – che sua nonna aveva accumulato. Le olive erano in alto a destra. Spostò la tenda che proteggeva il reparto provviste e individuò i due barattoli che cercava. Salì su una sedia per raggiungerli e fu sollevato di non doversi prendere la responsabilità della scelta del colore: c’erano solo quelle nere. Allungò una mano per tirar giù anche l’ultimo barattolo disponibile: voleva fare le cose per bene, senza metterci troppo tempo. Durante la manovra il mazzo di chiavi volò giù.

«Merda!» esclamò.

Non poteva dire parolacce, ovviamente, ma ora che era solo e non lo sentiva nessuno fece in modo di scandire bene le sillabe. Si gustò tutto il piacere di poter dire una parolaccia ad alta voce, anche se un po’ si vergognava. Le chiavi erano atterrate fra due enormi scatole di cartone ben sigillate. Saltò giù dalla sedia, posò i barattoli a terra e, in ginocchio, allungò la mano alla cieca nello spazio che le scatole gli concedevano. Che bella figura avrebbe fatto se in quel momento fosse entrato qualcuno… Riuscì ad afferrare l’estremità di una chiave e mentre si sbracciava notò una chiazza argentata sbucare fra i pacchi di pasta.

Una volta messe le chiavi al sicuro in tasca, si sporse per capire da dove venisse quel bagliore e si accorse di una scatola in legno di media grandezza – Michele la identificò come una scatola da vini – sul cui dorso campeggiavano figure in bianco e nero su sfondo argentato. Non che la scatola avesse un coperchio scintillante, era chiaro che era stato qualcuno a colorarla, era un chiaro argento-pennarello Uni Posca.

«Michele!»

Per poco non ebbe un attacco di cuore. In meno di due minuti raccolse tutto, spense la luce e chiuse con successo – al primo colpo! –la porta. Salì le scale a due a due e si infilò fra il portone di casa e la gonna nera di sua nonna; aveva un ascendente niente affatto trascurabile su di lui. Tornò in cucina e porse le olive alla zia Clotilde, la più giovane, che nel frattempo aveva preparato gli antipasti. Il contributo di Michele era stato realmente indispensabile: una volta sistemate nei piatti sei olive a testa le zie cominciarono a portarli in sala da pranzo. Seguì un momento di confusione in cui ognuno si trovò un posto a sedere e, deposto il proprio tovagliolo sulle gambe, cominciò a mangiare. Michele trovò un posto molto comodo all’angolo sinistro del tavolo,tra zia Anna e zia Rosa, che aveva bisogno di più spazio per far mangiare l’altro Michele, di sei anni più piccolo. I figli gemelli di zia Anna, invece, dormivano profondamente nella culla in camera da letto, anche se lei non poteva fare a meno, ogni tanto, di voltare la testa verso il corridoio. Quei tovaglioli rossi provenivano da una vetrinetta che ospitava, oltre a cristalleria varia e tazze da tè, fotografie ingiallite e oggetti vari il cui accesso a Michele era stato finora precluso; erano molto piacevoli da toccare.

«Michele, Michele? Vai a prendermi il telefono, per favore? L’ho lasciato sul davanzale in cucina.»

Michele lo trovò un ottimo modo per evitare che gli toccasse una porzione del contorno di cavoli e patate e colse al volo l’occasione; scese dalla sedia e abbandonò l’ormai caotica sala da pranzo per ripiombare in cucina. Zia Clotilde stava distribuendo i pezzi di capretto sul vassoio.

«Che parte vuoi?» gli domandò. «Una tenera?»

«Non mi piace la carne.»

«Ti metto il pezzo più piccolo!»

Il cellulare di zia Rosa era dotato di una serie di caratteristiche che lo rendevano l’oggetto tecnologico più appetibile della casa. Michele aveva provato a farsene regalare un esemplare per Natale, magari anche di un modello diverso, poteva accontentarsi, ma suo padre era stato molto chiaro e gli aveva detto di pensare piuttosto a sfruttare il set di Subbuteo che gli aveva comprato. Lo stesso padre che la sera giocava al computer fino a tardi con quello che Michele chiamava “il gioco dei carroarmati”; aveva provato a cimentarsi, una volta, ma era tutto scritto in inglese e anche andando alla cieca, per intuito, non era riuscito a combinare un granché.

La cosa bella di suo padre era che almeno si metteva a giocare a Subbuteo assieme a lui – e non si limitava a giocare, ma vinceva praticamente sempre, divertendosi anche più di lui. Il set che gli aveva regalato non era niente male, doveva ammettere: un panno verde e rettangolare che fungeva da campo, le porte con relative maniglie per i portieri, il tabellone segna punti – dotato di due rotelle laterali per variare i numeri, molto bello, la cosa che più gli piaceva – e le due squadre; quella versione comprendeva le miniature di calciatori famosi provenienti da diverse squadre. A suo padre non piaceva questa cosa, avrebbe preferito che fossero semplici omini distinti in squadra blu e squadra rossa. Si divertivano abbastanza, comunque, era stato il miglior regalo dell’anno. Non era così scontata come cosa: di solito la palma spettava sempre a quello di zia Rosa e zio Paul.

Zio Paul e zia Rosa vivevano in Germania e facevano ritorno al loro paese d’origine soltanto durante le festività. I loro regali erano sempre molto belli e soprattutto molto ricercati, come testimoniava una coppia di orsetti di peluche morbidissimi, avvolti in due maglioni invernali, unici pupazzi che Michele aveva voluto tenere in camera sua. E poi modelli di macchine con i dettagli più curati che avesse mai visto – lo spoiler, gli specchietti, il tetto ritraibile, la carica a molla –, le costruzioni, la riproduzione del pallone da calcio usato durante l’ultimo mondiale vinto dall’Italia. Tutte cose che aveva voluto far mettere sulle mensole di camera sua, perché non si rovinassero. Era perciò molto contento ogni qualvolta si presentavano a casa sua e di suo padre e dopotutto voleva sinceramente bene a zia Rosa. Del resto aveva chiamato suo figlio come lui.

Zio Paul era di poche parole, le uniche cose che gli aveva sentito pronunciare durante le riunioni familiari, a parte i discorsi che faceva con suo padre e che aveva imparato a classificare sotto la voce “politica”, erano «Vado a fumare una sigaretta» o «Questa carne è buonissima» e «Grazie, ora però ce ne andiamo». Non molto su cui poter basare un giudizio.

Michele portò il telefono a zia Rosa che, con la mano con cui non reggeva il bimbo, controllò se le fosse arrivato qualche messaggio. Dato il responso negativo, lo poggiò accanto a sé. Michele – il marmocchio di due anni, non quello che osservava avido il cellulare – non aveva voglia di mangiare la sua carne omogeneizzata.

«Posso finirla io?»

Almeno , in mancanza di una portata che fosse di suo gradimento, si sarebbe nutrito. Zia Anna si alzò dal suo posto per portar via i resti del secondo, seguita a ruota da sua mamma e sua sorella. Zia Rosa restò seduta, a dir poco esausta. Era dall’inizio del pranzo che Michele aveva una domanda da farle e doveva sbrigarsi, perché fra poco suo padre sarebbe tornato dal lavoro e non gli avrebbe fatto piacere trovarlo attaccato al cellulare di sua sorella.

«Zia, posso giocare al cellulare?»

«Sì, sì. Aspetta che te lo sblocco.»

Nessun gioco di carro armati complicato o che richiedesse una conoscenza dell’inglese. Aveva da battere il suo record personale e l’intervallo fra il secondo e il dolce – tanto la frutta non la voleva – era perfetto. Passò così i successivi cinque minuti, intento a sfregare l’indice su e giù per lo schermo, finché non comparve una barra di notifica. Un sms, non un messaggio. Era da parte di suo padre, memorizzato “Peppe”. Sperando di trarne informazioni utili, come per esempio l’ora a cui sarebbe arrivato e il tempo che gli rimaneva a disposizione per migliorare il suo punteggio, non si fece tanti scrupoli ad aprire la busta e leggere.

Il messaggio che trovò era molto serio e conciso: Arrivo fra cinque minuti, ne parliamo a voce. Conservami il dolce.

L’occhio gli cadde sui messaggi precedenti. Quello di sua zia diceva: Io la capisco dopotutto, vuole sposarsi per amore, essere sicura. Io, se potessi tornare indietro…

Boom. Che significa? Si vedeva che era un messaggio strano, di sicuro non il tipo di cosa che avrebbe mai sentito pronunciare a voce. Nessuno parla così. Forse solo nei film.

Chiuse la schermata dei messaggi e restituì il cellulare a sua zia che, non contenta di ringraziarlo con un sorriso, gli diede un bacio sulla testa. Io, se potessi tornare indietro… Michele restò nell’abbraccio più a lungo del dovuto. Non voleva veramente farlo e provò con tutte le sue forze a fissare il cesto di arance, mandarini, mele e pere posto al centro del tavolo, ma alla fine non resistette e alzò lo sguardo su suo zio Paul. Era all’altro angolo del tavolo, stava versando da bere a suo cognato e alla zia Anna.

«Vuoi?» domandò infine a sua moglie.

«Sì, sì, grazie.»

Michele si accorse che gli tremava la pancia, o meglio quello che stava dentro la pancia – un piatto di pasta col ragù, le olive, le mozzarelle e i sottaceti – aveva preso ad agitarsi; come se fossero brividi di freddo, ed era sicuro che di freddo non poteva trattarsi, perché aveva al contempo le guance accaldate. La faccia rossa e la pancia fredda. D’improvviso sentì molto forte la mancanza di suo padre.

«Dov’è papà?» chiese, senza un preciso destinatario.

«Sta arrivando, dovrebbe essere già qui. Vai a controllare dalla finestra se sta parcheggiando.»

Michele schizzò via in cucina, a sbirciare oltre le tende per guardare la strada. Una Volkswagen nera aveva rallentato e messo la freccia, e non c’era bisogno di leggere la targa (che peraltro sapeva a memoria) per capire che si trattava di suo padre. Si sentì subito sollevato e prima che potesse farci caso il tremolio si era già estinto. Quello che seguì fu un placcaggio in piena regola.

«Andiamo a casa?» fu la prima cosa che gli domandò sottovoce.

Suo padre, ancora intento a liberarsi di sciarpa e cappotto, rise.

«Fammi almeno mangiare qualcosa, sono appena arrivato!»

All’inizio Michele accettò quel giusto compromesso e tornò al suo posto, invogliato anche dall’aspettativa del dolce – dolcetti di pasta di mandorle e un pandoro residuo delle feste – poi cominciò a sentirsi a disagio. Provava a restare concentrato su quello che stavano dicendo a tavola o su suo cugino e i suoi tentativi di afferrare un coltello dal manico rosso, ma finiva per perdere il filo. C’era qualcosa che gli si rimescolava dentro, ora lo sentiva di nuovo.  Prese un dolce a forma di pesca aiutandosi con un tovagliolo, rimosse la foglia e lo addentò. Adorava quei dolci: se non fossero bastati a placare quel fastidio non sapeva che altro fare. Io, se potessi tornare indietro…

Suo padre stava addentando di gusto la carne che gli avevano tenuto da parte, le sue zie l’avevano lasciato solo per spostarsi verso il lato “adulti” della tavola, suo cugino Michele aveva raggiunto gli altri due gemelli nell’area riposo; nessuno gli badava più di tanto. Scese dalla sedia, adocchiò le chiavi lasciate incustodite sul mobile all’ingresso, ma stavolta recuperò il giaccone per non gelare. Fece attenzione ad aprire e chiudere il portone producendo il minor rumore possibile. Scese le due rampe di scale pensando a che spiegazione avrebbe potuto dare: mi annoiavo, non avevo nessuno con cui giocare, volevo vedere se trovavo la tua collezione di soldatini di cui parli sempre.

Il cigolio della porta gli diede di nuovo il benvenuto e il corridoio, ora che il cielo si era coperto e cominciava a piovere, era anche più buio di prima. Raggiunse di nuovo la porta. Poteva sempre inventare che era sceso a cercare qualche vecchio giocattolo. Aveva perfino il giaccone! Si chiuse la porta alle spalle e, accesa la luce, cercò di ritrovare il punto in cui erano cadute le chiavi. Nel frattempo che suo padre si rifocillava, aveva deciso che avrebbe cercato di capire che cosa fosse la scatola con le figure in bianco e nero sopra, tanto per far passare il tempo. Ora che ci faceva caso la scatola non era poi così nascosta, anzi. La sfilò dalla nicchia e, agitatala per rimuovere un po’ di polvere, la esaminò bene. Non aveva sbagliato, originariamente era stata una scatola per vini il cui coperchio s’incastrava in due fessure ai lati. I personaggi raffigurati nei ritagli di giornale, in bianco e nero, gli diedero l’impressione di essere musicisti. Michele si sedette a gambe incrociate sul pavimento e iniziò a forzare il coperchio cercando di non rompere nulla.

Dopo un po’ di prove riuscì a farlo scattare in avanti e a quel punto fu facile sfilarlo del tutto. Restò un po’ deluso: un paio di fogli ingialliti e due file di musicassette. Nemmeno originali, erano tutti nastri registrati e contrassegnati dalle rispettive etichette. Ne prese una, aveva scritto “Sex Pistols” sul dorso. Ancora quell’inglese. Non trovò nulla che lo interessasse e dopo averne esaminate tre – Dead Kennedys, Siouxsie and the Banshees – lasciò perdere. Si domandò di chi potessero essere. Gli veniva difficile immaginare una fra zia Anna, zia Clotilde o zia Rosa registrare musica inglese, e poi perché avrebbero dovuto lasciarle qui a marcire? Non potevano essere di suo padre, perché sapeva quali erano i musicisti che piacevano a suo padre.

Si concentrò sui due fogli. Erano piuttosto grandi, più volte ripiegati, e recavano due disegni a penna. Il tratto e il colore nero, ancora vivido, gli piacquero da subito. Il primo disegno rappresentava un tipo su una sedia a rotelle in un giardino ricco di fiori; o almeno suppose che fosse un giardino, a giudicare dai rampicanti che scendevano dal soffitto e che avevano attirato l’attenzione del ragazzo. Sul secondo invece era disegnata una donna nuda. Con nuda intendeva proprio completamente nuda, era una donna seduta – sembrava seduta per via della posa, anche se l’autore non aveva disegnato nessun sostegno – con capelli mossi raccolti in una coda bassa. Michele cercò di capire chi fosse. A differenza dell’altro foglio, su questo, in basso a destra, era stata lasciata una firma. 1986, dei numeri era sicuro.

«Cosa stai facendo?»

Era la seconda volta nella giornata che il cuore gli schizzava in gola e poi tornava giù al suo posto. Si voltò a guardare suo padre, che aveva rimesso su il cappotto.

«Che fai qui, ma che sei venuto a fare?»

Sembrava infastidito. Michele richiuse come poteva il disegno, per non fargli intravedere cosa fosse.

«Niente, mi annoiavo di sopra.»

Suo padre spostò lo sguardo sulla scatola e non poté reprimere un verso di sorpresa.

«Che cos’è? Dove l’hai trovata?»

Michele cercò di rimettere tutto a posto e minimizzare, ma lui fu più veloce e gli strappò i fogli di mano. Diede una rapida occhiata ai disegni e arrossì; gli spuntarono proprio due macchie rosse al centro delle guance. Michele lo aveva visto imbarazzarsi in quel modo soltanto quella volta che la nonna aveva telefonato a casa per dire che aveva comprato tre copie del giornale, letto il suo articolo, ritagliato la sua foto e l’aveva fatto vedere a tutti gli inquilini del palazzo. Poi si chinò sulla scatola.

«Ma dove l’hai trovata?»

Approfittando della sua distrazione, si riprese i fogli. Li esaminò un’altra volta, mentre suo padre tirava fuori le cassette.

«Li hai fatti tu questi.»

«Uhm, sì. Quando ero ragazzo. Non so perché si trovano qui… »

«Sono belli… sei bravo.»

Suo padre era completamente rapito. Recuperò il coperchio e se lo rigirò fra le mani. Michele lo lasciò coi suoi pensieri per un po’, poi la curiosità fu più forte e chiese:

«Anche questa l’hai fatta tu?»

Suo padre tentennò. Sembrava indeciso se rispondere sinceramente o meno. Poi annuì.

«Sì, io e altri ragazzi… con mio fratello, quando usavano questa cantina per suonare.»

Il primo disegno. Michele lo riprese in mano e di nuovo cercò di capire, dai tratti del viso, se fosse qualcuno che conosceva. Poi pensò alla fotografia che tenevano sul mobile dello studio, accanto a quella della mamma. Fu come se tutto a un tratto qualsiasi pensiero nella sua testa si fosse azzerato, come se avessero di colpo abbassato il volume. Il ragazzo raffigurato nel primo disegno aveva gli occhiali, suo zio no; o almeno non nella foto. Rifletté molto su cosa dire e su quali parole usare per dirlo.

«Papà» cominciò. Non riuscì a suonare naturale.

«Questa era tutta roba di zio Leonardo.»

Suo padre lo precedette. Si sedette anche lui per terra e gli mostrò ancora il coperchio della scatola. Spiegò che era stato zio Leonardo a colorarla con un pennarello argentato e a incollarci le figure di quei quattro signori in bianco e nero; «i Sex Pistols», aggiunse. Indicò il dorso delle audiocassette, mostrandogli come erano state disposte per gruppo musicale e in ordine cronologico di uscita degli album.

«Queste le ho messe a posto io, le ho ordinate io dopo che è morto. Ma non so chi ci ha messo questi disegni…»

«Tumore?» domandò Michele.

Se c’era una cosa a cui teneva era essere preso sul serio da suo padre. Gli sembrava che pronunciando quella parola così oscura, ma al contempo molto tecnica e precisa, lasciasse intuire che lui le capiva queste cose, che si poteva fare un discorso di quel tipo con lui. Lui le capiva queste cose, così come aveva capito il messaggio di zia Rosa. Io, se potessi tornare indietro…

«No. Con la macchina» rispose suo padre, sorridendo.

A quel punto Michele tacque per capire se poteva aspettarsi qualche altra frase, ma non venne nient’altro. Per un momento pensò di fargli delle domande sul messaggio che aveva letto – sapeva che suo padre gli avrebbe dato una risposta sincera –, ma poi decise che non gli andava tanto di parlarne. Prese un fazzoletto usato dalla tasca e si pulì il naso. Il giorno di Natale, ad un certo punto a metà fra il pranzo e il caffè, era andato in cerca di suo padre per domandargli se poteva usare il regalo di zia Clotilde, una macchina radiocomandata, nel giardino della nonna; l’aveva trovato sul balcone con zio Paul a fumare una sigaretta. Si era vergognato, non sapeva bene di che cosa ma si era vergognato, e aveva fatto dietrofront. Non voleva chiedere spiegazioni su zia Rosa, ma qualcosa doveva pur dirla.

«Papà, ma tu fumi?»

«No, certo che no.»

«E allora perché il giorno di Natale ti ho visto fumare sul balcone con zio Paul?»

«Era solo una sigaretta, l’ho fumata per fargli compagnia.»

«Non fumare più.»

Nella sua testa la frase aveva un tono meno grave e meno capriccioso, un tono più serio, un tono che dimostrava che questa cosa non lo turbava in sé e per sé, ma che lo stava dicendo perché sapeva che il fumo faceva male. Per la sua salute. Anche se non era vero che lo diceva per quello e gli dava semplicemente fastidio che suo padre avesse condiviso quella sigaretta con zio Paul. Suo padre annuì e, dopo essersi stiracchiato, propose di tornare su dagli altri.

Misero la scatola a posto, nel suo cantuccio fra i pacchi di pasta, e poi entrambi si spolverarono a vicenda le giacche e i pantaloni, per poi finire a darsi manate, ridendo. 
«Per fortuna che ti sei messo il giubbino» si complimentò suo padre, «si gela qua dentro, è umidissimo.»

Michele si sentiva un po’ scombussolato, ma non era sicuro che fosse per via dei dolci mangiati o del freddo. Domandò se non volesse conservare i suoi disegni e suo padre rispose che no, poteva anche lasciarli lì. Michele disse che andava bene, ma li infilò entrambi nella tasca interna del suo giubbino, dove finirono in compagnia di un paio di caramelle gommose. Poi uscirono insieme dalla stanza, facendo girare la chiave due volte.

«Anche questa porta aveva delle “personalizzazioni”, una volta» disse suo padre, con un altro sorriso. «Suppongo che i teschi non piacessero granché, ma non credo che nessuno abbia mai capito cosa significassero le scritte in inglese.»

Fece una pausa, come per pensarci su.

«In effetti, non erano proprio cose che si vanno a scrivere sulle porte delle cantine» concluse.


Zia Rosa li accolse sulla soglia del portone di casa col piccolo Michele in braccio, domandando cosa avessero fatto per tutto quel tempo. Non diede occasione di rispondere che già andava distribuendo tazze di caffè. Michele pensò che doveva assolutamente scoprire se sua madre e la signorina del disegno – a cui non mancavano i peli pubici, cosa che lo aveva un po’ spiazzato –fossero la stessa persona. Non ebbe più un mal di pancia come quello di quel giorno, almeno finché non si decise a chiedere a suo padre come mai la zia Rosa non venisse più a trovarli durante le festività pasquali. A quel tempo era già abbastanza grande da saper dare un nome alle cose.

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