Michele entrò in cucina, luogo in
cui di solito non era ammesso, perché si era sentito chiamare. Non ebbe neanche
il tempo di guardarsi intorno, fra i vapori dei fornelli, e chiedersi chi mai
poteva aver bisogno di lui, che sua nonna gli aveva già afferrato il braccio.
Aveva la mano umida e Michele un po’ si dispiacque per la sorte toccata al suo maglione.
«Sono finte le olive, devi
scendere nel sottano e prenderne altre scatole.»
Un’informazione confidenziale
sussurratagli all’orecchio, un compito importante, assegnato proprio a lui.
Michele annuì e chinò la testa per passare oltre sua zia Rosa, che reggeva una
pirofila all’apparenza pesante. Zia Anna era l’addetta alla carne – che a lui
non piaceva e quindi snobbava – e stava chiedendo se per favore si poteva
aprire un po’ la finestra, perché stava impazzendo. Era tutta rossa in viso e
si era tirata su le maniche del golf, in effetti. Qualcuna fece notare:
«L’aria fa male alla schiena di
mamma.»
Zia Anna ebbe una pronta e secca
risposta:
«E infatti mamma non dovrebbe
stare lì.»
«Vero, non dovrebbe neanche
cucinare.»
«Sì mamma, vai a sederti.»
Presagendo la colluttazione
(verbale e non) che sarebbe seguita, Michele sgattaiolò verso la porta, giusto
prima che sua nonna cominciasse ad alzare la voce. Non aveva fatto due passi
che ricordò di non aver domandato se le olive bisognava prenderle di colore
nero o di colore verde. Era un dettaglio importante, fece dietrofront. Facevano
ancora proclami circa il fatto che la mamma non dovesse star lì a cucinare, che
ci avrebbero pensato loro, ma di fatto nessuna aveva abbandonato la propria postazione.
Per ottenere l’attenzione di sua
nonna dovette andarle vicino e così respirare l’odore dei cavoli che stava
pelando.
«Di che colore devo prenderle, le
olive?»
«Sullo scaffale in alto a
destra.»
Perplesso, ma intuendo che non era
il momento di fare domande, lasciò la cucina. Fosse dipeso da lui, sarebbe
anche tornato di nuovo a chiedere precisamente quanti barattoli servivano e –
magari in quel caso avrebbe alzato il tono della voce – se ci volevano le olive
nere o le olive verdi, ma non voleva che sua nonna pensasse che era un incapace
senza spirito d’iniziativa. Pensò che avrebbe deciso sul momento, in base alla
disponibilità delle risorse.
Chiusasi la porta alle spalle,
gli toccava attraversare il corridoio buio, tratto che compì con più rapidità
del dovuto: non andava granché d’accordo con i corridoi, specie se poco
illuminati. Prese il mazzo di chiavi appeso all’ingresso e aprì la porta
cercando di non farsi notare dalla gente radunata in sala da pranzo. La sala da
pranzo, vista da lì, sembrava un mondo a parte: ordinata, vi regnava la giusta
temperatura, c’era la giusta quantità di gente – forse distribuitasi in maniera
più ragionevole.
Erano i mariti e i bambini più
piccoli. Michele per sua sfortuna si collocava in una fascia d’età per cui era
o troppo piccolo per poter avere una conversazione seria con qualcuno o troppo
grande perché il suo interlocutore avesse la capacità di rispondergli, e questo
lo condannava alla noia durante i pranzi in famiglia. La stanza piena, il
contrasto col corridoio… sembrava di scaldarsi solo guardandola. Forse era per
la disposizione dei mobili, o per via dell’albero di Natale messo a sinistra.
Un mondo a parte, ordinato, luminoso, caldo. Pulito. Michele intravide suo zio
Paul, il marito di zia Rosa, intento a fumare dando le spalle a tutti.
«Michele! Michele, vieni qui,
dove vai?»
Schivò la presa di zio Lino per
infilarsi nella fessura tra il portone e le scale. Una volta zio Lino gli aveva
domandato se non preferisse venire con lui a farsi un giro piuttosto che essere
smollato a casa di sua nonna. Michele aveva risposto che gli andava benissimo
stare a casa di nonna, così come in quel momento gli andava benissimo essere
stato spedito a prendere le olive. Era molto chiaro chi deteneva il potere in quella
casa e non era certo suo zio Paul che fumava alla finestra dietro l’albero di
Natale.
Vedeva sua nonna e le sue zie
affaccendarsi in cucina e gli sembravano così solide, così compatte, così
sicure di sé e di quel che dovevano fare. Sapevano sempre che cosa fare. Essere
preso da parte e ingaggiato per recuperare le cibarie che mancavano significava
far parte di quella sorta di corporazione, essere dalla parte giusta, dalla
parte di quelli che sanno come si fanno le cose.
Vai a prendere le olive nel sottano.
La sua maestra d’italiano aveva caldeggiato l’acquisto di un vocabolario
qualsiasi, che fosse abbastanza piccolo da potere esser portato ogni giorno
nello zaino.
«Devi cercare sempre le parole di
cui non conosci il significato.»
Benissimo, le aveva cercate; o ci
aveva provato. Non aveva trovato la parola sottano sul suo vocabolario,
ovviamente. Suo padre lo aveva condotto nel suo studio e gli aveva mostrato un
dizionario molto più grande, verde, ben rilegato, che aveva sprigionato un
sacco di polvere quando l’avevano poggiato sulla scrivania; lì aveva trovato la
parola che cercava. Sottano: che sta sotto, inferiore. In Abruzzo, Puglia e
Calabria, tipo di abitazione popolare a livello stradale, di una o due stanze,
equivalente al basso napoletano.
Per strada faceva freddo, certo,
ma stare lì sotto era come entrare in un frigorifero a pozzetto. Michele
rimpianse di non aver preso il giaccone quando aprì la prima porta e percorse
il corridoio; questo era particolarmente stretto e umido e doveva percorrerlo tutto
quanto perché la porta che cercava, di un grigio lucido, era l’ultima a sinistra.
Accese la luce e cercò di farsi
strada in fretta fra le varie cose – alcune sensate, altre meno – che sua nonna
aveva accumulato. Le olive erano in alto a destra. Spostò la tenda che
proteggeva il reparto provviste e individuò i due barattoli che cercava. Salì
su una sedia per raggiungerli e fu sollevato di non doversi prendere la
responsabilità della scelta del colore: c’erano solo quelle nere. Allungò una
mano per tirar giù anche l’ultimo barattolo disponibile: voleva fare le cose
per bene, senza metterci troppo tempo. Durante la manovra il mazzo di chiavi
volò giù.
«Merda!» esclamò.
Non poteva dire parolacce,
ovviamente, ma ora che era solo e non lo sentiva nessuno fece in modo di
scandire bene le sillabe. Si gustò tutto il piacere di poter dire una
parolaccia ad alta voce, anche se un po’ si vergognava. Le chiavi erano
atterrate fra due enormi scatole di cartone ben sigillate. Saltò giù dalla
sedia, posò i barattoli a terra e, in ginocchio, allungò la mano alla cieca
nello spazio che le scatole gli concedevano. Che bella figura avrebbe fatto se
in quel momento fosse entrato qualcuno… Riuscì ad afferrare l’estremità di una
chiave e mentre si sbracciava notò una chiazza argentata sbucare fra i pacchi
di pasta.
Una volta messe le chiavi al
sicuro in tasca, si sporse per capire da dove venisse quel bagliore e si
accorse di una scatola in legno di media grandezza – Michele la identificò come
una scatola da vini – sul cui dorso campeggiavano figure in bianco e nero su
sfondo argentato. Non che la scatola avesse un coperchio scintillante, era
chiaro che era stato qualcuno a colorarla, era un chiaro argento-pennarello Uni
Posca.
«Michele!»
Per poco non ebbe un attacco di
cuore. In meno di due minuti raccolse tutto, spense la luce e chiuse con
successo – al primo colpo! –la porta. Salì le scale a due a due e si infilò fra
il portone di casa e la gonna nera di sua nonna; aveva un ascendente niente
affatto trascurabile su di lui. Tornò in cucina e porse le olive alla zia
Clotilde, la più giovane, che nel frattempo aveva preparato gli antipasti. Il contributo
di Michele era stato realmente indispensabile: una volta sistemate nei piatti
sei olive a testa le zie cominciarono a portarli in sala da pranzo. Seguì un
momento di confusione in cui ognuno si trovò un posto a sedere e, deposto il
proprio tovagliolo sulle gambe, cominciò a mangiare. Michele trovò un posto
molto comodo all’angolo sinistro del tavolo,tra zia Anna e zia Rosa, che aveva
bisogno di più spazio per far mangiare l’altro Michele, di sei anni più
piccolo. I figli gemelli di zia Anna, invece, dormivano profondamente nella
culla in camera da letto, anche se lei non poteva fare a meno, ogni tanto, di
voltare la testa verso il corridoio. Quei tovaglioli rossi provenivano da una
vetrinetta che ospitava, oltre a cristalleria varia e tazze da tè, fotografie ingiallite
e oggetti vari il cui accesso a Michele era stato finora precluso; erano molto
piacevoli da toccare.
«Michele, Michele? Vai a
prendermi il telefono, per favore? L’ho lasciato sul davanzale in cucina.»
Michele lo trovò un ottimo modo
per evitare che gli toccasse una porzione del contorno di cavoli e patate e
colse al volo l’occasione; scese dalla sedia e abbandonò l’ormai caotica sala
da pranzo per ripiombare in cucina. Zia Clotilde stava distribuendo i pezzi di
capretto sul vassoio.
«Che parte vuoi?» gli domandò.
«Una tenera?»
«Non mi piace la carne.»
«Ti metto il pezzo più piccolo!»
Il cellulare di zia Rosa era
dotato di una serie di caratteristiche che lo rendevano l’oggetto tecnologico
più appetibile della casa. Michele aveva provato a farsene regalare un
esemplare per Natale, magari anche di un modello diverso, poteva accontentarsi,
ma suo padre era stato molto chiaro e gli aveva detto di pensare piuttosto a sfruttare
il set di Subbuteo che gli aveva comprato. Lo stesso padre che la sera giocava
al computer fino a tardi con quello che Michele chiamava “il gioco dei
carroarmati”; aveva provato a cimentarsi, una volta, ma era tutto scritto in
inglese e anche andando alla cieca, per intuito, non era riuscito a combinare
un granché.
La cosa bella di suo padre era
che almeno si metteva a giocare a Subbuteo assieme a lui – e non si limitava a
giocare, ma vinceva praticamente sempre, divertendosi anche più di lui. Il set
che gli aveva regalato non era niente male, doveva ammettere: un panno verde e
rettangolare che fungeva da campo, le porte con relative maniglie per i
portieri, il tabellone segna punti – dotato di due rotelle laterali per variare
i numeri, molto bello, la cosa che più gli piaceva – e le due squadre; quella
versione comprendeva le miniature di calciatori famosi provenienti da diverse
squadre. A suo padre non piaceva questa cosa, avrebbe preferito che fossero
semplici omini distinti in squadra blu e squadra rossa. Si divertivano
abbastanza, comunque, era stato il miglior regalo dell’anno. Non era così
scontata come cosa: di solito la palma spettava sempre a quello di zia Rosa e
zio Paul.
Zio Paul e zia Rosa vivevano in
Germania e facevano ritorno al loro paese d’origine soltanto durante le
festività. I loro regali erano sempre molto belli e soprattutto molto
ricercati, come testimoniava una coppia di orsetti di peluche morbidissimi,
avvolti in due maglioni invernali, unici pupazzi che Michele aveva voluto
tenere in camera sua. E poi modelli di macchine con i dettagli più curati che
avesse mai visto – lo spoiler, gli specchietti, il tetto ritraibile, la carica
a molla –, le costruzioni, la riproduzione del pallone da calcio usato durante
l’ultimo mondiale vinto dall’Italia. Tutte cose che aveva voluto far mettere
sulle mensole di camera sua, perché non si rovinassero. Era perciò molto
contento ogni qualvolta si presentavano a casa sua e di suo padre e dopotutto
voleva sinceramente bene a zia Rosa. Del resto aveva chiamato suo figlio come
lui.
Zio Paul era di poche parole, le
uniche cose che gli aveva sentito pronunciare durante le riunioni familiari, a
parte i discorsi che faceva con suo padre e che aveva imparato a classificare
sotto la voce “politica”, erano «Vado a fumare una sigaretta» o «Questa carne è
buonissima» e «Grazie, ora però ce ne andiamo». Non molto su cui poter basare
un giudizio.
Michele portò il telefono a zia
Rosa che, con la mano con cui non reggeva il bimbo, controllò se le fosse
arrivato qualche messaggio. Dato il responso negativo, lo poggiò accanto a sé.
Michele – il marmocchio di due anni, non quello che osservava avido il
cellulare – non aveva voglia di mangiare la sua carne omogeneizzata.
«Posso finirla io?»
Almeno , in mancanza di una
portata che fosse di suo gradimento, si sarebbe nutrito. Zia Anna si alzò dal
suo posto per portar via i resti del secondo, seguita a ruota da sua mamma e
sua sorella. Zia Rosa restò seduta, a dir poco esausta. Era dall’inizio del
pranzo che Michele aveva una domanda da farle e doveva sbrigarsi, perché fra
poco suo padre sarebbe tornato dal lavoro e non gli avrebbe fatto piacere
trovarlo attaccato al cellulare di sua sorella.
«Zia, posso giocare al
cellulare?»
«Sì, sì. Aspetta che te lo
sblocco.»
Nessun gioco di carro armati
complicato o che richiedesse una conoscenza dell’inglese. Aveva da battere il
suo record personale e l’intervallo fra il secondo e il dolce – tanto la frutta
non la voleva – era perfetto. Passò così i successivi cinque minuti, intento a
sfregare l’indice su e giù per lo schermo, finché non comparve una barra di
notifica. Un sms, non un messaggio. Era da parte di suo padre, memorizzato
“Peppe”. Sperando di trarne informazioni utili, come per esempio l’ora a cui
sarebbe arrivato e il tempo che gli rimaneva a disposizione per migliorare il
suo punteggio, non si fece tanti scrupoli ad aprire la busta e leggere.
Il messaggio che trovò era molto
serio e conciso: Arrivo fra cinque minuti,
ne parliamo a voce. Conservami il dolce.
L’occhio gli cadde sui messaggi
precedenti. Quello di sua zia diceva: Io
la capisco dopotutto, vuole sposarsi per amore, essere sicura. Io, se potessi
tornare indietro…
Boom. Che significa? Si vedeva
che era un messaggio strano, di sicuro non il tipo di cosa che avrebbe mai
sentito pronunciare a voce. Nessuno parla così. Forse solo nei film.
Chiuse la schermata dei messaggi
e restituì il cellulare a sua zia che, non contenta di ringraziarlo con un
sorriso, gli diede un bacio sulla testa. Io,
se potessi tornare indietro… Michele restò nell’abbraccio più a lungo del
dovuto. Non voleva veramente farlo e provò con tutte le sue forze a fissare il
cesto di arance, mandarini, mele e pere posto al centro del tavolo, ma alla
fine non resistette e alzò lo sguardo su suo zio Paul. Era all’altro angolo del
tavolo, stava versando da bere a suo cognato e alla zia Anna.
«Vuoi?» domandò infine a sua
moglie.
«Sì, sì, grazie.»
Michele si accorse che gli
tremava la pancia, o meglio quello che stava dentro la pancia – un piatto di
pasta col ragù, le olive, le mozzarelle e i sottaceti – aveva preso ad
agitarsi; come se fossero brividi di freddo, ed era sicuro che di freddo non
poteva trattarsi, perché aveva al contempo le guance accaldate. La faccia rossa
e la pancia fredda. D’improvviso sentì molto forte la mancanza di suo padre.
«Dov’è papà?» chiese, senza un
preciso destinatario.
«Sta arrivando, dovrebbe essere
già qui. Vai a controllare dalla finestra se sta parcheggiando.»
Michele schizzò via in cucina, a
sbirciare oltre le tende per guardare la strada. Una Volkswagen nera aveva
rallentato e messo la freccia, e non c’era bisogno di leggere la targa (che
peraltro sapeva a memoria) per capire che si trattava di suo padre. Si sentì
subito sollevato e prima che potesse farci caso il tremolio si era già estinto.
Quello che seguì fu un placcaggio in piena regola.
«Andiamo a casa?» fu la prima
cosa che gli domandò sottovoce.
Suo padre, ancora intento a
liberarsi di sciarpa e cappotto, rise.
«Fammi almeno mangiare qualcosa,
sono appena arrivato!»
All’inizio Michele accettò quel
giusto compromesso e tornò al suo posto, invogliato anche dall’aspettativa del
dolce – dolcetti di pasta di mandorle e un pandoro residuo delle feste – poi
cominciò a sentirsi a disagio. Provava a restare concentrato su quello che
stavano dicendo a tavola o su suo cugino e i suoi tentativi di afferrare un
coltello dal manico rosso, ma finiva per perdere il filo. C’era qualcosa che
gli si rimescolava dentro, ora lo sentiva di nuovo. Prese un dolce a forma di pesca aiutandosi con
un tovagliolo, rimosse la foglia e lo addentò. Adorava quei dolci: se non
fossero bastati a placare quel fastidio non sapeva che altro fare. Io, se potessi tornare indietro…
Suo padre stava addentando di
gusto la carne che gli avevano tenuto da parte, le sue zie l’avevano lasciato
solo per spostarsi verso il lato “adulti” della tavola, suo cugino Michele
aveva raggiunto gli altri due gemelli nell’area riposo; nessuno gli badava più
di tanto. Scese dalla sedia, adocchiò le chiavi lasciate incustodite sul mobile
all’ingresso, ma stavolta recuperò il giaccone per non gelare. Fece attenzione
ad aprire e chiudere il portone producendo il minor rumore possibile. Scese le
due rampe di scale pensando a che spiegazione avrebbe potuto dare: mi annoiavo,
non avevo nessuno con cui giocare, volevo vedere se trovavo la tua collezione
di soldatini di cui parli sempre.
Il cigolio della porta gli diede
di nuovo il benvenuto e il corridoio, ora che il cielo si era coperto e
cominciava a piovere, era anche più buio di prima. Raggiunse di nuovo la porta.
Poteva sempre inventare che era sceso a cercare qualche vecchio giocattolo.
Aveva perfino il giaccone! Si chiuse la porta alle spalle e, accesa la luce,
cercò di ritrovare il punto in cui erano cadute le chiavi. Nel frattempo che
suo padre si rifocillava, aveva deciso che avrebbe cercato di capire che cosa
fosse la scatola con le figure in bianco e nero sopra, tanto per far passare il
tempo. Ora che ci faceva caso la scatola non era poi così nascosta, anzi. La
sfilò dalla nicchia e, agitatala per rimuovere un po’ di polvere, la esaminò
bene. Non aveva sbagliato, originariamente era stata una scatola per vini il
cui coperchio s’incastrava in due fessure ai lati. I personaggi raffigurati nei
ritagli di giornale, in bianco e nero, gli diedero l’impressione di essere
musicisti. Michele si sedette a gambe incrociate sul pavimento e iniziò a
forzare il coperchio cercando di non rompere nulla.
Dopo un po’ di prove riuscì a farlo
scattare in avanti e a quel punto fu facile sfilarlo del tutto. Restò un po’
deluso: un paio di fogli ingialliti e due file di musicassette. Nemmeno
originali, erano tutti nastri registrati e contrassegnati dalle rispettive
etichette. Ne prese una, aveva scritto “Sex Pistols” sul dorso. Ancora
quell’inglese. Non trovò nulla che lo interessasse e dopo averne esaminate tre
– Dead Kennedys, Siouxsie and the Banshees – lasciò perdere. Si domandò di chi
potessero essere. Gli veniva difficile immaginare una fra zia Anna, zia
Clotilde o zia Rosa registrare musica inglese, e poi perché avrebbero dovuto
lasciarle qui a marcire? Non potevano essere di suo padre, perché sapeva quali
erano i musicisti che piacevano a suo padre.
Si concentrò sui due fogli. Erano
piuttosto grandi, più volte ripiegati, e recavano due disegni a penna. Il
tratto e il colore nero, ancora vivido, gli piacquero da subito. Il primo
disegno rappresentava un tipo su una sedia a rotelle in un giardino ricco di
fiori; o almeno suppose che fosse un giardino, a giudicare dai rampicanti che
scendevano dal soffitto e che avevano attirato l’attenzione del ragazzo. Sul
secondo invece era disegnata una donna nuda. Con nuda intendeva proprio
completamente nuda, era una donna seduta – sembrava seduta per via della posa,
anche se l’autore non aveva disegnato nessun sostegno – con capelli mossi
raccolti in una coda bassa. Michele cercò di capire chi fosse. A differenza
dell’altro foglio, su questo, in basso a destra, era stata lasciata una firma.
1986, dei numeri era sicuro.
«Cosa stai facendo?»
Era la seconda volta nella
giornata che il cuore gli schizzava in gola e poi tornava giù al suo posto. Si
voltò a guardare suo padre, che aveva rimesso su il cappotto.
«Che fai qui, ma che sei venuto a
fare?»
Sembrava infastidito. Michele
richiuse come poteva il disegno, per non fargli intravedere cosa fosse.
«Niente, mi annoiavo di sopra.»
Suo padre spostò lo sguardo sulla
scatola e non poté reprimere un verso di sorpresa.
«Che cos’è? Dove l’hai trovata?»
Michele cercò di rimettere tutto
a posto e minimizzare, ma lui fu più veloce e gli strappò i fogli di mano.
Diede una rapida occhiata ai disegni e arrossì; gli spuntarono proprio due
macchie rosse al centro delle guance. Michele lo aveva visto imbarazzarsi in
quel modo soltanto quella volta che la nonna aveva telefonato a casa per dire
che aveva comprato tre copie del giornale, letto il suo articolo, ritagliato la
sua foto e l’aveva fatto vedere a tutti gli inquilini del palazzo. Poi si chinò
sulla scatola.
«Ma dove l’hai trovata?»
Approfittando della sua
distrazione, si riprese i fogli. Li esaminò un’altra volta, mentre suo padre
tirava fuori le cassette.
«Li hai fatti tu questi.»
«Uhm, sì. Quando ero ragazzo. Non
so perché si trovano qui… »
«Sono belli… sei bravo.»
Suo padre era completamente
rapito. Recuperò il coperchio e se lo rigirò fra le mani. Michele lo lasciò coi
suoi pensieri per un po’, poi la curiosità fu più forte e chiese:
«Anche questa l’hai fatta tu?»
Suo padre tentennò. Sembrava
indeciso se rispondere sinceramente o meno. Poi annuì.
«Sì, io e altri ragazzi… con mio
fratello, quando usavano questa cantina per suonare.»
Il primo disegno. Michele lo
riprese in mano e di nuovo cercò di capire, dai tratti del viso, se fosse
qualcuno che conosceva. Poi pensò alla fotografia che tenevano sul mobile dello
studio, accanto a quella della mamma. Fu come se tutto a un tratto qualsiasi
pensiero nella sua testa si fosse azzerato, come se avessero di colpo abbassato
il volume. Il ragazzo raffigurato nel primo disegno aveva gli occhiali, suo zio
no; o almeno non nella foto. Rifletté molto su cosa dire e su quali parole
usare per dirlo.
«Papà» cominciò. Non riuscì a
suonare naturale.
«Questa era tutta roba di zio
Leonardo.»
Suo padre lo precedette. Si
sedette anche lui per terra e gli mostrò ancora il coperchio della scatola.
Spiegò che era stato zio Leonardo a colorarla con un pennarello argentato e a
incollarci le figure di quei quattro signori in bianco e nero; «i Sex Pistols»,
aggiunse. Indicò il dorso delle audiocassette, mostrandogli come erano state
disposte per gruppo musicale e in ordine cronologico di uscita degli album.
«Queste le ho messe a posto io,
le ho ordinate io dopo che è morto. Ma non so chi ci ha messo questi disegni…»
«Tumore?» domandò Michele.
Se c’era una cosa a cui teneva
era essere preso sul serio da suo padre. Gli sembrava che pronunciando quella
parola così oscura, ma al contempo molto tecnica e precisa, lasciasse intuire
che lui le capiva queste cose, che si poteva fare un discorso di quel tipo con
lui. Lui le capiva queste cose, così come aveva capito il messaggio di zia
Rosa. Io, se potessi tornare indietro…
«No. Con la macchina» rispose suo
padre, sorridendo.
A quel punto Michele tacque per
capire se poteva aspettarsi qualche altra frase, ma non venne nient’altro. Per
un momento pensò di fargli delle domande sul messaggio che aveva letto – sapeva
che suo padre gli avrebbe dato una risposta sincera –, ma poi decise che non
gli andava tanto di parlarne. Prese un fazzoletto usato dalla tasca e si pulì
il naso. Il giorno di Natale, ad un certo punto a metà fra il pranzo e il
caffè, era andato in cerca di suo padre per domandargli se poteva usare il
regalo di zia Clotilde, una macchina radiocomandata, nel giardino della nonna;
l’aveva trovato sul balcone con zio Paul a fumare una sigaretta. Si era
vergognato, non sapeva bene di che cosa ma si era vergognato, e aveva fatto
dietrofront. Non voleva chiedere spiegazioni su zia Rosa, ma qualcosa doveva
pur dirla.
«Papà, ma tu fumi?»
«No, certo che no.»
«E allora perché il giorno di
Natale ti ho visto fumare sul balcone con zio Paul?»
«Era solo una sigaretta, l’ho
fumata per fargli compagnia.»
«Non fumare più.»
Nella sua testa la frase aveva un
tono meno grave e meno capriccioso, un tono più serio, un tono che dimostrava
che questa cosa non lo turbava in sé e per sé, ma che lo stava dicendo perché sapeva
che il fumo faceva male. Per la sua salute. Anche se non era vero che lo diceva
per quello e gli dava semplicemente fastidio che suo padre avesse condiviso
quella sigaretta con zio Paul. Suo padre annuì e, dopo essersi stiracchiato,
propose di tornare su dagli altri.
Misero la scatola a posto, nel
suo cantuccio fra i pacchi di pasta, e poi entrambi si spolverarono a vicenda le
giacche e i pantaloni, per poi finire a darsi manate, ridendo.
«Per fortuna che ti sei
messo il giubbino» si complimentò suo padre, «si gela qua dentro, è
umidissimo.»
Michele si sentiva un po’
scombussolato, ma non era sicuro che fosse per via dei dolci mangiati o del
freddo. Domandò se non volesse conservare i suoi disegni e suo padre rispose
che no, poteva anche lasciarli lì. Michele disse che andava bene, ma li infilò
entrambi nella tasca interna del suo giubbino, dove finirono in compagnia di un
paio di caramelle gommose. Poi uscirono insieme dalla stanza, facendo girare la
chiave due volte.
«Anche questa porta aveva delle
“personalizzazioni”, una volta» disse suo padre, con un altro sorriso.
«Suppongo che i teschi non piacessero granché, ma non credo che nessuno abbia
mai capito cosa significassero le scritte in inglese.»
Fece una pausa, come per pensarci
su.
«In effetti, non erano proprio
cose che si vanno a scrivere sulle porte delle cantine» concluse.
Zia Rosa li accolse sulla soglia
del portone di casa col piccolo Michele in braccio, domandando cosa avessero
fatto per tutto quel tempo. Non diede occasione di rispondere che già andava
distribuendo tazze di caffè. Michele pensò che doveva assolutamente scoprire se
sua madre e la signorina del disegno – a cui non mancavano i peli pubici, cosa
che lo aveva un po’ spiazzato –fossero la stessa persona. Non ebbe più un mal
di pancia come quello di quel giorno, almeno finché non si decise a chiedere a
suo padre come mai la zia Rosa non venisse più a trovarli durante le festività
pasquali. A quel tempo era già abbastanza grande da saper dare un nome alle
cose.
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