[Nella speranza che la prossima cosa abbia una trama]
Le capitava sempre più spesso di
perdere la concentrazione. Se provava a spiegarlo, usava l’immagine delle onde
che alteravano la superficie del mare. Diceva che era come iniziare a scrivere
su un foglio partendo non dall’angolo in alto a sinistra ma dal centro, come se
le parole vi si disperdessero attorno, si allontanassero in varie direzioni
diverse, come se lo stesso foglio si increspasse nel momento in cui poggiava la
penna e la carta cominciasse ad oscillare, uno specchio bianco in cui le sue
parole sbiadivano e annegavano. Perdeva la capacità di sintesi; perdeva la
messa a fuoco. Per esempio non sapeva che cosa stesse facendo lì.
Se l’albero di Natale che faceva
capolino dallo scatolone rettangolare avesse preso un microfono e le avesse
domandato:
«Che stai facendo qui, Marta?»
Lei avrebbe risposto: «Non lo so
che cosa sto facendo.»
«Pensi di fermarti per molto?»
«Il tempo necessario a calmarmi.»
«D’accordo, ma sei agitata per
qualcosa?»
Questo riconduceva alle
increspature al centro del foglio. Prima di fissare i rami dell’albero di
Natale si trovava alla sua scrivania a controllare documenti, nella stanza che
assieme a Maride avevano sistemato perché entrambe potessero usarla quando
avevano bisogno di tranquillità. La scrivania era appartenuta al nonno di
Maride; di suo c’erano le carte, i libri, le penne lasciate senza tappo e
l’abat-jour comprata al supermercato. Aveva sentito il bisogno di alzarsi e si
era alzata. Aveva fatto due passi avanti coprendo la distanza che separava gli
angoli del tappeto – anche quello era suo. Di sua madre, per meglio dire. Era
stato un regalo gradito, senza quel tappeto dal gusto classico la stanza
sembrava un po’ ridicola, pretenziosa: non all’altezza di essere una stanza in
cui lei o Maride potevano chiudersi per trovare la giusta concentrazione. Con
quel tappeto si riusciva a credere che fosse uno studio vero e proprio,
nonostante fosse a fianco della cucina.
Risedette e tornò a leggere i
documenti nella cartella (non riusciva a lavorare al computer, preferiva
stampare tutto e portarseli a casa). Poi li lasciò andare di nuovo e
poggiandosi contro lo schienale si chiese che cosa le stava capitando.
Sentì un improvviso e fastidioso
formicolio alle mani e si mise ad agitare indice e medio ripetutamente,
fissando il muro di fronte a sé. Smise subito non appena ci fece caso: quasi
non se ne accorgeva. Come se i pensieri che non riusciva a portare alla luce
trovassero modo di manifestarsi in quel movimento inconsulto. Doveva alzarsi di
nuovo, non riusciva a stare seduta.
Uscì dalla stanza senza nemmeno
chiudere la porta, cercò il suo mazzo di chiavi nel posacenere posto accanto al
telefono e si lasciò il portone alle spalle senza preoccuparsi di dare una
mandata. Giù per i due piani di scale fino al garage sul retro del palazzo fu
una passeggiata, altrettanto sollevare la porta. Aveva voglia di fare un giro
in auto, ma l’auto non era al suo posto. Il garage era vuoto tranne che per i
due scaffali contro il muro che le stava di fronte, pieni di oggetti inusati o
troppo ingombranti per stare in casa, come l’ombrellone da spiaggia o l’occorrente
per addobbare l’albero di Natale, e le lastre di polistirolo per fare da base
al presepe. C’era stato un tempo in cui preparare il presepe la rilassava…
conosceva un negozio in cui riusciva a comprare il muschio migliore, che per i
primi giorni addirittura profumava, quello che le faceva fare bella figura.
Maride le lasciava tutto il merito e tutti i complimenti, lei se li prendeva
con un po’ di imbarazzo; pensava comunque che fosse una cosa un po’ strana,
fare i presepi. Probabilmente di lì a qualche decennio sarebbe divenuta
un’attività da menzionare nei manuali di storia, da riscoprire passeggiando
nelle sale di un museo. Eppure era così rilassante, sistemare i vari piani,
proporzionare le statuette in base alla grandezza; assicurarsi che non fosse innaturale,
pur nella finzione. Questa passione non svelava alcun particolare talento
organizzativo o attenzione per i lavori di casa, era soltanto un’attività in
cui riusciva: sapeva come mettere le cose giuste nel posto giusto. Poi a Maride
piaceva che la sala avesse quell’angolo caratteristico, ogni inverno.
Avevano avvolto tutto quanto con
delle buste di plastica nere, a protezione dalla polvere, tranne le sette
bottiglie di salsa di pomodoro in fila sul secondo ripiano. Anche quelle una
provvidenza da parte della famiglia di Maride.
In realtà non era scesa in garage
per prendere la macchina. Sapeva che Maride non sarebbe tornata prima delle
cinque, del resto non aveva nemmeno le chiavi. Né sapeva che ore fossero, in
effetti. Nascosta dall’ombrellone c’era la pianta che avevano comprato credendo
che avrebbe potuto dare un tocco di vivacità all’ingresso – e che era finita
brutalmente cestinata perché «è una cosa morta che vuole sembrare viva, di
plastica, che schifo, mi fa impressione».
Marta spostò l’ombrellone per
guardarla meglio: ai piedi del vaso c’erano dei rametti, ognuno con tre foglie
di uguale grandezza. Non le piacque quella visione e rimise l’ombrellone al suo
posto, a coprirlo. Di nuovo quel formicolio. Ora che la macchina non c’era il
garage sembrava molto più grande del solito e anche meno angusto; riusciva a
coprirne la lunghezza con nove passi e mezzo, la larghezza con sette.
Una volta aveva tenuto una
lezione in aula multimediale, sfruttando un proiettore e aiutandosi con delle
diapositive. In prima fila erano sedute due ragazze, una con i capelli molto
scuri, raccolti in una coda, e l’altra con un paio di occhiali dalle lenti
rettangolari. Non le aveva guardate durante la spiegazione, ma si era accorta
che avevano preso a ridere fra loro ad un certo punto. Non sarebbe stato un
avvenimento particolarmente rilevante se una volta a casa, scorrendo le
diapositive (usando il computer di Maride), non avesse trovato un errore di
battitura. Una e senza accento. Le risate. Una e senza accento e le risate.
Aveva chiuso il file di getto e si era alzata dalla sedia come se
improvvisamente fossero spuntati dei chiodi dal sedile. Non l’aveva più aperto,
quel file. Era come se avesse paura che aprendolo sarebbero venute fuori,
assieme alle diapositive, tutte le persone presenti in sala, tutta la platea di
gente che sussurrava – non rideva, ma sussurrava – indicandola di soppiatto. Le
due ragazze in prima fila ridevano e ridevano per colpa di quella e senza
accento; tutta l’aula parlava e sussurrava al vicino di posto che nelle sue
diapositive, nella casella di testo superiore, a commento di una slide in cui
era contenuto un elenco, c’era un errore di battitura. Uno sciame di cavallette
sussurranti. Se le era portate a letto per un po’ di tempo, quelle cavallette. Un
giorno Maride si era seduta accanto a lei e aveva puntato il cursore del mouse
sul file chiedendole se non potevano semplicemente aprirlo e correggerlo e
farla finita. Marta si era alzata di nuovo e le aveva chiesto di farlo al posto
suo.
La sera stessa si era scusata con
Maride… a quel punto era tornata al computer, aveva cliccato sul file. Il cuore
le batteva fortissimo. Sentiva i battiti farsi più profondi, ce li aveva nelle
orecchie. La e aveva di nuovo il suo accento e Marta aveva pensato che forse
poteva non essersene accorto nessuno, che in effetti quando le era toccato
mostrare quella diapositiva non ci si era soffermata più di tanto, l’aveva
scorsa velocemente, era solo un elenco di riepilogo.
Si fregò le mani, poi respirò
profondamente. Quella mattina a lavoro, mentre stava bevendo il caffè assieme
ad una sua collega, erano state raggiunte da una delle dottoresse degli uffici
superiori, anche lei in pellegrinaggio verso quel distributore «perché il caffè
lo fa meglio». Gilda, la sua collega, era dovuta correre in bagno. La
dottoressa aveva atteso che scomparisse dalla loro vista e poi aveva detto a
Marta che aveva sentito dire che sarebbe stato presto vacante un posto nel
dipartimento di Igiene degli alimenti. Lo aveva detto guardandola bene negli
occhi.
«Quella specializzazione ce l’hai
solo tu, no?»
Non è che si fosse fatta
impressionare. Non sopportava quasi nessuna delle persone con cui lavorava né
si fidava di una cosa detta di fronte ad una macchinetta del caffè da una che
la guardava sempre in modo curioso – quel curioso che la infastidiva parecchio
– fin da quando aveva scoperto che conviveva con una donna. Una volta lei e
Maride avevano incontrato lei, suo marito e i suoi due figli alla fiera per la
festa patronale e non era stata una gran bella scena, con lei che aveva fatto
di tutto per evitare di incrociarla, tirando il braccio di Maride verso la
calca. Ma quando tornò a sedersi alla sua sedia, nel suo ufficio, pensò che era
felice che non ci fosse stata anche Gilda ad ascoltare quel pettegolezzo. Del
resto, pensò che forse la dottoressa non avrebbe fatto nessun tipo di allusione
se fosse stata presente anche lei. Gilda era quel tipo di persona che si faceva
timbrare l’uscita da un’altra collega del loro piano e usciva anche due ore
prima.
Sì, si era sentita più forte;
aveva un vantaggio, in un certo senso.
Più tardi Gilda era venuta a
chiederle un consiglio sulla compilazione di un modulo e Marta non le aveva
detto nulla. Era stata impassibile dietro la sua scrivania pensando fra sé che
era ovvio che la dottoressa non avrebbe mai parlato di quel tipo di cose con
Gilda. Sperò che se ne andasse in fretta. Lei le chiese se andava tutto bene.
«Sì» rispose Marta, «scusami,
sono un po’ assente oggi.»
Suo padre non era particolarmente
famoso per la sagacia. Una volta aveva trovato su un tavolino, in bella mostra
sopra un libro di chiaro stampo cattolico, un taccuino nero con un semplice
elastico a chiuderlo. Incoraggiata dall’essere sola in casa, l’aveva preso in
mano e si era seduta sul divano, aprendolo. Recava chiaramente la grafia di suo
padre. Alla terza pagina aveva scritto come titolo “Rapporti coi familiari” e
sulla sinistra una serie di nomi: padre, Anita, Beatrice (i nomi
delle sue sorelle), Clarissa (il nome di sua moglie) e il suo. Accanto ad ogni
nome aveva scritto una o due parole. Accanto a Padre aveva scritto
“assente/subìto”; accanto a quello di sua moglie “subìto”. Accanto al suo aveva
scritto “assente”. Assente. Suo padre credeva che fosse una persona assente ed
era stata la pagina a righe di un quadernetto a comunicarglielo. As-sen-te.
Referto ritirato allo sportello. Aveva rimesso a posto l’elastico e posato il
taccuino sul tavolo.
Il rumore di un auto in
avvicinamento la fece voltare, in tempo per vedere Maride a bordo della sua
Volkswagen fare la manovra per posizionarsi entro i confini del garage, premere
l’acceleratore e venirle incontro. La guardò senza dire nulla mentre spegneva
l’auto e scendeva, raccogliendo in maniera un po’ goffa la borsa e il trench.
«Si può sapere che cosa stai
facendo?»
Esitò.
«Ma che fai qui?»
Le venne in mente una delle
classiche scene dei cartoni animati che guardava da piccola in televisione:
quella in cui un personaggio dà una sberla di una forza tale da far roteare la
testa dell’altro su se stessa di trecentosessanta gradi. Si sentiva più o meno
così, tranne per il fatto che era sicura che la sua testa non stesse girando.
«Niente, stavo…»
Si interruppe. Vide gli occhi di
Maride allargarsi, le sue labbra curvarsi verso il basso, ebbe l’impressione
che un velo di stanchezza le stesse calando dalla testa in giù, proprio in quel
momento, davanti a lei. Non voleva esasperarla, non doveva esasperarla. Prima
che potesse dare una voce a quella faccia tanto odiata si affrettò a dare
spiegazioni.
«Volevo farmi un giro in
macchina, sono scesa e poi mi sono ricordata che non eri ancora tornata.»
«Perché, se no non ti saresti
accorta che non c’ero, se ci fosse stata la macchina?»
«No, io… l’avevo dimenticato,
scusa.»
Uscirono insieme dal garage e si
incamminarono verso il portone del palazzo. Marta doveva dire qualcosa e invece
fece caso alle unghie di Maride, smaltate di un rosso scuro che in alcuni punti
era venuto via. Maride non era particolarmente vanitosa, ma le piaceva smaltarsi
le unghie: aveva una serie di boccette di vari colori in un astuccio che teneva
in camera da letto. Una volta, senza nessun motivo particolare, senza sapere
nemmeno perché, le aveva regalato uno smalto di colore grigio e a Maride era
piaciuto così tanto che lo aveva indossato per due settimane di fila.
«Com’è andata a lavoro?»
«Normale» Maride sembrò
concentrarsi. «Se avevi voglia di uscire, perché non vai a comprare la frutta?
L’abbiamo finita.»
«Vieni con me?»
Accettò di accompagnarla. Marta
le camminava a fianco e sentiva su di sé uno sguardo che confinava tra il
premuroso e il fastidioso. Lo sguardo che pesava più della macchina che avevano
appena lasciato al sicuro, dietro la porta del garage.
«Va tutto bene» la precedette.
«Va tutto bene.»
«Non volevo insinuare che
qualcosa non andasse.»
«Sì che volevi, però va tutto
bene. Veramente.»
Fece una pausa, poi aggiunse:
«Non volevo mica rubarti la
macchina.»
Maride sbuffò, divertita.
«Tra tutte le cose che ho potuto
pensare questa proprio non c’era.»
Quando si erano conosciute, Marta
stava prendendo la patente (aveva passato il quarto di secolo: si era cimentata
alla guida solo dopo aver finito l’università). Usava la vecchia auto di sua
madre per fare pratica; Maride si era offerta più volte di assisterla alla
guida, ma Marta aveva sempre detto di no: non le andava di far vedere a quella
ragazza che spontaneamente le parlava e la invitava ad uscire, che le telefonava
e rideva alle sue battute e – sempre spontaneamente – la baciava ogni volta che
si trovavano chiuse fra quattro pareti (contando anche una cabina telefonica)
che razza di incapace fosse alla guida. Una volta però si era trovata costretta
ad accompagnarla, utilizzando la propria auto, e Maride le aveva detto che non
guidava affatto male.
«Da quello che mi dicevi avevo
capito che fossi proprio inadatta.»
«Ma non è che non essere inadatti
significa essere adatti.»
«Siamo in cerca di complimenti?»
Maride era la persona più gentile
che conosceva. La più paziente, la più buona, la più coraggiosa, la più
comprensiva; aveva un modo particolare di abbracciarla – o forse, banalmente,
era Marta a non aver ricevuto molti abbracci in vita sua; in ogni caso era
speciale – che non si sarebbe mai levata dalla testa. Questo pensava: se un
giorno si fossero lasciate e non si fossero mai più riviste, le sarebbe rimasto
impresso il suo modo di abbracciarla, le mani che scivolano dall’altezza della
vita verso le scapole e poi tornano giù di nuovo. Avrebbe potuto commuovere chiunque,
con quell’abbraccio, e non ne conosceva le potenzialità.
Si accorse che stava agitando di
nuovo l’indice e il medio; per fortuna fu Maride a spezzare il silenzio.
«Scusami se prima ti ho aggredita
così, non volevo dire niente, non volevo dire che c’era qualcosa che non
andava.»
Vedeva chiaramente lo sforzo, ne
percepiva l’entità, il peso in ogni parola.
«Stamattina a lavoro è successa
una cosa» la interruppe.
Tanto valeva dirle tutto, così si
sarebbe tolta il pensiero. Così Maride si sarebbe sentita utile. Per l’ennesima
volta vedeva il suo viso e i suoi occhi dire che sì, la ascoltava e la capiva,
ma Marta sapeva che dentro di sé in realtà pensava: «Dammi la forza, sii
paziente, sii comprensiva, lo sai che ha un problema.» Raccontò brevemente l’episodio.
«Non le ho detto niente, capisci?
Perché non le ho detto niente? Dovrei dirle qualcosa? Dovrei dirle che c’è un
posto libero in Igiene degli alimenti?»
«Tanto per cominciare nemmeno lo
sai, se c’è un posto libero in Igiene degli alimenti, e probabilmente non c’è.»
«Sì ma se ci fosse? Che razza di
persona sono? Perché non le ho detto niente? Oh, che cosa stupida…»
«Non è una cosa stupida, si
chiama istinto di conservazione, amor proprio, ambizione.»
«Ma quale ambizione, io nemmeno
so se mi ci trasferirei, ad Igiene degli alimenti!»
«Forse anch’io non le avrei detto
nulla.»
Marta sapeva che la frase
sottendeva: «Io non ho nemmeno il tempo di chiedermi se le avrei detto nulla o
meno».
Tacque. Erano al banco del
fruttivendolo e lo osservavano raccogliere delle mele dalla cassetta e
infilarle in un sacchetto marrone. Avevano adocchiato un casco di banane non
ancora mature e chiesero se per favore poteva aggiungere anche quello.
«Domani dovrei dirglielo?»
Maride aspettò qualche secondo
prima di rispondere, con un sospiro:
«Che cosa?»
«Di quello che mi ha detto oggi
la veterinaria.»
«Sì, probabilmente dovresti.»
Non aggiunse altro. Maride era
stanchissima, le spalle curve come se stesse trasportando l’intera macchina con
la frutta nel bagagliaio e lei sul sedile anteriore; Marta era certa di valere
più del telaio e della carrozzeria, in termini di peso. Era appena tornata dal
lavoro ed aveva accettato di fare due passi con lei e ascoltare tutte quelle
cose… certe volte le veniva in mente come quando da ragazza si sforzava di
capire perché a sua madre importasse così tanto delle pulizie. Come quando le
parlava delle tende da lavare e lei non faceva che chiedersi: «Per quale motivo
si dovrebbero lavare le tende? Per quale motivo questo dovrebbe essere fonte di
preoccupazione? Sono forse le tende il problema?».
Ma non poteva farci nulla, lei
era davvero convinta che il più importante problema, la più assoluta priorità
fosse in quel momento sentirsi dire che non era una persona cattiva per aver
omesso alla sua collega l’eventualità di un posto vacante in Igiene degli
alimenti. E Maride era se stessa da ragazza, solo con più pazienza e più
comprensione di quanta non ne avesse mai avuta.
Salirono le scale del palazzo
parlando di quel che avrebbero cucinato per cena. Una volta in casa, Maride la
superò per andare in camera da letto a cambiarsi; mentre iniziava a sbottonarsi
la camicia, Marta sentì lo scroscio dell’acqua corrente.
«O se no potremmo ordinare una
pizza. Ti va una pizza, stasera?»
Non ottenne risposta e non fece
in tempo a voltarsi che si sentì abbracciare da dietro e baciare sul collo. Si
domandò se fosse sudata e si rispose che sì, doveva esserlo.
«Scusa, sono sudata, che schifo…»
Di nuovo non ottenne risposta. Si
sentì prendere per i fianchi, rivoltare, e di colpo fra la sua camicia e i suoi
pantaloni spuntò un lembo di pelle. Pensò al modo in cui la sua pancia si
sdraiava fra il suo seno e il pube (non è che si sdraiava, si stravaccava),
stava lì sospesa per inerzia, senza vigore, abbandonata. Sentì la mano di
Maride risalire sulla sua schiena verso i ganci del reggiseno – non era uno dei
suoi abbracci migliori, no. Immaginò le unghie laccate di rosso scuro che aveva
intravisto prima graffiarle piano la spalla.
Pensò di facilitarle le cose aprendosi
la camicia sul davanti e fu sollevata quando riuscirono insieme a sfilarla e lanciarla
sul materasso. Poi, con una punta di panico, si disse: «Non sto facendo niente,
non la sto aiutando.»
Pensò che avrebbe dovuto
ricambiare. Pensò che non le andava tanto di ricambiare, ma che doveva
ricambiare. Pensò che avrebbe tanto voluto non pensare.
Ora erano stese sul letto a
cercare di togliersi i pantaloni e le scarpe a vicenda. Immaginò la giornata
che doveva aver avuto Maride; la immaginò seduta alla sua scrivania a prenotare
gli appuntamenti del dottore, con tutti i post-it attaccati al mobile, i colori
dettati da una segnaletica precisa: verde per i numeri utili da avere a portata
di mano, giallo per i cambiamenti di orario e le annotazioni riferite ai
pazienti, rosa per le comunicazioni che le rilasciava il dottore. Un giorno
Marta l’aveva raggiunta in ufficio dopo averle proposto di andare a pranzare
assieme ed aveva potuto vederla, la scrivania. C’era anche una loro foto
nascosta fra il monitor del computer e la base del cordless. Ricordò che sul
momento l’aveva trovata così carina…
Spostò i capelli di Maride dalla
guancia perché non la impicciassero; era con la testa fra le sue gambe. Le
venne in mente quando aveva scoperto che Io e Annie avrebbe dovuto intitolarsi
Anedonia e chissà perché c’era rimasta molto male. No, in realtà sapeva a che
cosa stava pensando. Da quanto tempo erano in quella situazione? Con lei
sdraiata a pancia in su, intendeva. Due minuti, cinque minuti, sette minuti? I fatidici
tredici minuti? Forse ci stava mettendo troppo tempo. Forse non ce l’avrebbe
fatta.
Ripensò a Maride seduta alla
scrivania tutto il giorno che tornava a casa e trovava la sua compagna (ripugnava
abbastanza questa parola, ma non quanto detestava il termine fidanzata) nel
loro garage. A fare cosa? Niente! E non faceva altro che chiederle se secondo
lei non fosse una persona orribile per non aver detto alla sua collega di piano
che giravano voci secondo cui si sarebbe presto liberato un posto in Igiene
degli alimenti; se non era una persona orribile allora doveva essere per forza
una persona vigliacca e forse tra le due cose era meglio essere una persona
orribile, considerò. O forse no, forse l’essere vigliacca era qualcosa più alla
sua portata.
Avrebbe finto, anche se sapeva
che poi si sarebbe pentita per averlo fatto. Del resto non correva il rischio
di litigi nel caso Maride se ne fosse accorta: non ne aveva nemmeno voglia,
però la giornata seduta alla scrivania e la passeggiata fino al fruttivendolo
avevano il loro peso. Perciò finse.
Pensò a quanto sarebbe stato
bello poter galleggiare su uno specchio d’acqua senza avere nessuno fra i piedi
e il vuoto in testa…
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