sabato 1 agosto 2015

Onde

[Nella speranza che la prossima cosa abbia una trama]

Le capitava sempre più spesso di perdere la concentrazione. Se provava a spiegarlo, usava l’immagine delle onde che alteravano la superficie del mare. Diceva che era come iniziare a scrivere su un foglio partendo non dall’angolo in alto a sinistra ma dal centro, come se le parole vi si disperdessero attorno, si allontanassero in varie direzioni diverse, come se lo stesso foglio si increspasse nel momento in cui poggiava la penna e la carta cominciasse ad oscillare, uno specchio bianco in cui le sue parole sbiadivano e annegavano. Perdeva la capacità di sintesi; perdeva la messa a fuoco. Per esempio non sapeva che cosa stesse facendo lì.

Se l’albero di Natale che faceva capolino dallo scatolone rettangolare avesse preso un microfono e le avesse domandato: 
«Che stai facendo qui, Marta?»

Lei avrebbe risposto: «Non lo so che cosa sto facendo.»

«Pensi di fermarti per molto?»

«Il tempo necessario a calmarmi.»

«D’accordo, ma sei agitata per qualcosa?»


Questo riconduceva alle increspature al centro del foglio. Prima di fissare i rami dell’albero di Natale si trovava alla sua scrivania a controllare documenti, nella stanza che assieme a Maride avevano sistemato perché entrambe potessero usarla quando avevano bisogno di tranquillità. La scrivania era appartenuta al nonno di Maride; di suo c’erano le carte, i libri, le penne lasciate senza tappo e l’abat-jour comprata al supermercato. Aveva sentito il bisogno di alzarsi e si era alzata. Aveva fatto due passi avanti coprendo la distanza che separava gli angoli del tappeto – anche quello era suo. Di sua madre, per meglio dire. Era stato un regalo gradito, senza quel tappeto dal gusto classico la stanza sembrava un po’ ridicola, pretenziosa: non all’altezza di essere una stanza in cui lei o Maride potevano chiudersi per trovare la giusta concentrazione. Con quel tappeto si riusciva a credere che fosse uno studio vero e proprio, nonostante fosse a fianco della cucina.


Risedette e tornò a leggere i documenti nella cartella (non riusciva a lavorare al computer, preferiva stampare tutto e portarseli a casa). Poi li lasciò andare di nuovo e poggiandosi contro lo schienale si chiese che cosa le stava capitando.

Sentì un improvviso e fastidioso formicolio alle mani e si mise ad agitare indice e medio ripetutamente, fissando il muro di fronte a sé. Smise subito non appena ci fece caso: quasi non se ne accorgeva. Come se i pensieri che non riusciva a portare alla luce trovassero modo di manifestarsi in quel movimento inconsulto. Doveva alzarsi di nuovo, non riusciva a stare seduta.

Uscì dalla stanza senza nemmeno chiudere la porta, cercò il suo mazzo di chiavi nel posacenere posto accanto al telefono e si lasciò il portone alle spalle senza preoccuparsi di dare una mandata. Giù per i due piani di scale fino al garage sul retro del palazzo fu una passeggiata, altrettanto sollevare la porta. Aveva voglia di fare un giro in auto, ma l’auto non era al suo posto. Il garage era vuoto tranne che per i due scaffali contro il muro che le stava di fronte, pieni di oggetti inusati o troppo ingombranti per stare in casa, come l’ombrellone da spiaggia o l’occorrente per addobbare l’albero di Natale, e le lastre di polistirolo per fare da base al presepe. C’era stato un tempo in cui preparare il presepe la rilassava… conosceva un negozio in cui riusciva a comprare il muschio migliore, che per i primi giorni addirittura profumava, quello che le faceva fare bella figura. Maride le lasciava tutto il merito e tutti i complimenti, lei se li prendeva con un po’ di imbarazzo; pensava comunque che fosse una cosa un po’ strana, fare i presepi. Probabilmente di lì a qualche decennio sarebbe divenuta un’attività da menzionare nei manuali di storia, da riscoprire passeggiando nelle sale di un museo. Eppure era così rilassante, sistemare i vari piani, proporzionare le statuette in base alla grandezza; assicurarsi che non fosse innaturale, pur nella finzione. Questa passione non svelava alcun particolare talento organizzativo o attenzione per i lavori di casa, era soltanto un’attività in cui riusciva: sapeva come mettere le cose giuste nel posto giusto. Poi a Maride piaceva che la sala avesse quell’angolo caratteristico, ogni inverno.

Avevano avvolto tutto quanto con delle buste di plastica nere, a protezione dalla polvere, tranne le sette bottiglie di salsa di pomodoro in fila sul secondo ripiano. Anche quelle una provvidenza da parte della famiglia di Maride.

In realtà non era scesa in garage per prendere la macchina. Sapeva che Maride non sarebbe tornata prima delle cinque, del resto non aveva nemmeno le chiavi. Né sapeva che ore fossero, in effetti. Nascosta dall’ombrellone c’era la pianta che avevano comprato credendo che avrebbe potuto dare un tocco di vivacità all’ingresso – e che era finita brutalmente cestinata perché «è una cosa morta che vuole sembrare viva, di plastica, che schifo, mi fa impressione».

Marta spostò l’ombrellone per guardarla meglio: ai piedi del vaso c’erano dei rametti, ognuno con tre foglie di uguale grandezza. Non le piacque quella visione e rimise l’ombrellone al suo posto, a coprirlo. Di nuovo quel formicolio. Ora che la macchina non c’era il garage sembrava molto più grande del solito e anche meno angusto; riusciva a coprirne la lunghezza con nove passi e mezzo, la larghezza con sette.

Una volta aveva tenuto una lezione in aula multimediale, sfruttando un proiettore e aiutandosi con delle diapositive. In prima fila erano sedute due ragazze, una con i capelli molto scuri, raccolti in una coda, e l’altra con un paio di occhiali dalle lenti rettangolari. Non le aveva guardate durante la spiegazione, ma si era accorta che avevano preso a ridere fra loro ad un certo punto. Non sarebbe stato un avvenimento particolarmente rilevante se una volta a casa, scorrendo le diapositive (usando il computer di Maride), non avesse trovato un errore di battitura. Una e senza accento. Le risate. Una e senza accento e le risate. Aveva chiuso il file di getto e si era alzata dalla sedia come se improvvisamente fossero spuntati dei chiodi dal sedile. Non l’aveva più aperto, quel file. Era come se avesse paura che aprendolo sarebbero venute fuori, assieme alle diapositive, tutte le persone presenti in sala, tutta la platea di gente che sussurrava – non rideva, ma sussurrava – indicandola di soppiatto. Le due ragazze in prima fila ridevano e ridevano per colpa di quella e senza accento; tutta l’aula parlava e sussurrava al vicino di posto che nelle sue diapositive, nella casella di testo superiore, a commento di una slide in cui era contenuto un elenco, c’era un errore di battitura. Uno sciame di cavallette sussurranti. Se le era portate a letto per un po’ di tempo, quelle cavallette. Un giorno Maride si era seduta accanto a lei e aveva puntato il cursore del mouse sul file chiedendole se non potevano semplicemente aprirlo e correggerlo e farla finita. Marta si era alzata di nuovo e le aveva chiesto di farlo al posto suo.

La sera stessa si era scusata con Maride… a quel punto era tornata al computer, aveva cliccato sul file. Il cuore le batteva fortissimo. Sentiva i battiti farsi più profondi, ce li aveva nelle orecchie. La e aveva di nuovo il suo accento e Marta aveva pensato che forse poteva non essersene accorto nessuno, che in effetti quando le era toccato mostrare quella diapositiva non ci si era soffermata più di tanto, l’aveva scorsa velocemente, era solo un elenco di riepilogo.

Si fregò le mani, poi respirò profondamente. Quella mattina a lavoro, mentre stava bevendo il caffè assieme ad una sua collega, erano state raggiunte da una delle dottoresse degli uffici superiori, anche lei in pellegrinaggio verso quel distributore «perché il caffè lo fa meglio». Gilda, la sua collega, era dovuta correre in bagno. La dottoressa aveva atteso che scomparisse dalla loro vista e poi aveva detto a Marta che aveva sentito dire che sarebbe stato presto vacante un posto nel dipartimento di Igiene degli alimenti. Lo aveva detto guardandola bene negli occhi.

«Quella specializzazione ce l’hai solo tu, no?»

Non è che si fosse fatta impressionare. Non sopportava quasi nessuna delle persone con cui lavorava né si fidava di una cosa detta di fronte ad una macchinetta del caffè da una che la guardava sempre in modo curioso – quel curioso che la infastidiva parecchio – fin da quando aveva scoperto che conviveva con una donna. Una volta lei e Maride avevano incontrato lei, suo marito e i suoi due figli alla fiera per la festa patronale e non era stata una gran bella scena, con lei che aveva fatto di tutto per evitare di incrociarla, tirando il braccio di Maride verso la calca. Ma quando tornò a sedersi alla sua sedia, nel suo ufficio, pensò che era felice che non ci fosse stata anche Gilda ad ascoltare quel pettegolezzo. Del resto, pensò che forse la dottoressa non avrebbe fatto nessun tipo di allusione se fosse stata presente anche lei. Gilda era quel tipo di persona che si faceva timbrare l’uscita da un’altra collega del loro piano e usciva anche due ore prima.

Sì, si era sentita più forte; aveva un vantaggio, in un certo senso.

Più tardi Gilda era venuta a chiederle un consiglio sulla compilazione di un modulo e Marta non le aveva detto nulla. Era stata impassibile dietro la sua scrivania pensando fra sé che era ovvio che la dottoressa non avrebbe mai parlato di quel tipo di cose con Gilda. Sperò che se ne andasse in fretta. Lei le chiese se andava tutto bene.

«Sì» rispose Marta, «scusami, sono un po’ assente oggi.»

Suo padre non era particolarmente famoso per la sagacia. Una volta aveva trovato su un tavolino, in bella mostra sopra un libro di chiaro stampo cattolico, un taccuino nero con un semplice elastico a chiuderlo. Incoraggiata dall’essere sola in casa, l’aveva preso in mano e si era seduta sul divano, aprendolo. Recava chiaramente la grafia di suo padre. Alla terza pagina aveva scritto come titolo “Rapporti coi familiari” e sulla sinistra una serie di nomi: padre, Anita, Beatrice (i nomi delle sue sorelle), Clarissa (il nome di sua moglie) e il suo. Accanto ad ogni nome aveva scritto una o due parole. Accanto a Padre aveva scritto “assente/subìto”; accanto a quello di sua moglie “subìto”. Accanto al suo aveva scritto “assente”. Assente. Suo padre credeva che fosse una persona assente ed era stata la pagina a righe di un quadernetto a comunicarglielo. As-sen-te. Referto ritirato allo sportello. Aveva rimesso a posto l’elastico e posato il taccuino sul tavolo.

Il rumore di un auto in avvicinamento la fece voltare, in tempo per vedere Maride a bordo della sua Volkswagen fare la manovra per posizionarsi entro i confini del garage, premere l’acceleratore e venirle incontro. La guardò senza dire nulla mentre spegneva l’auto e scendeva, raccogliendo in maniera un po’ goffa la borsa e il trench.

«Si può sapere che cosa stai facendo?»

Esitò.

«Ma che fai qui?»

Le venne in mente una delle classiche scene dei cartoni animati che guardava da piccola in televisione: quella in cui un personaggio dà una sberla di una forza tale da far roteare la testa dell’altro su se stessa di trecentosessanta gradi. Si sentiva più o meno così, tranne per il fatto che era sicura che la sua testa non stesse girando.

«Niente, stavo…»

Si interruppe. Vide gli occhi di Maride allargarsi, le sue labbra curvarsi verso il basso, ebbe l’impressione che un velo di stanchezza le stesse calando dalla testa in giù, proprio in quel momento, davanti a lei. Non voleva esasperarla, non doveva esasperarla. Prima che potesse dare una voce a quella faccia tanto odiata si affrettò a dare spiegazioni.

«Volevo farmi un giro in macchina, sono scesa e poi mi sono ricordata che non eri ancora tornata.»

«Perché, se no non ti saresti accorta che non c’ero, se ci fosse stata la macchina?»

«No, io… l’avevo dimenticato, scusa.»

Uscirono insieme dal garage e si incamminarono verso il portone del palazzo. Marta doveva dire qualcosa e invece fece caso alle unghie di Maride, smaltate di un rosso scuro che in alcuni punti era venuto via. Maride non era particolarmente vanitosa, ma le piaceva smaltarsi le unghie: aveva una serie di boccette di vari colori in un astuccio che teneva in camera da letto. Una volta, senza nessun motivo particolare, senza sapere nemmeno perché, le aveva regalato uno smalto di colore grigio e a Maride era piaciuto così tanto che lo aveva indossato per due settimane di fila.

«Com’è andata a lavoro?»

«Normale» Maride sembrò concentrarsi. «Se avevi voglia di uscire, perché non vai a comprare la frutta? L’abbiamo finita.»

«Vieni con me?»

Accettò di accompagnarla. Marta le camminava a fianco e sentiva su di sé uno sguardo che confinava tra il premuroso e il fastidioso. Lo sguardo che pesava più della macchina che avevano appena lasciato al sicuro, dietro la porta del garage.

«Va tutto bene» la precedette. «Va tutto bene.»

«Non volevo insinuare che qualcosa non andasse.»

«Sì che volevi, però va tutto bene. Veramente.»

Fece una pausa, poi aggiunse:

«Non volevo mica rubarti la macchina.»

Maride sbuffò, divertita.

«Tra tutte le cose che ho potuto pensare questa proprio non c’era.»

Quando si erano conosciute, Marta stava prendendo la patente (aveva passato il quarto di secolo: si era cimentata alla guida solo dopo aver finito l’università). Usava la vecchia auto di sua madre per fare pratica; Maride si era offerta più volte di assisterla alla guida, ma Marta aveva sempre detto di no: non le andava di far vedere a quella ragazza che spontaneamente le parlava e la invitava ad uscire, che le telefonava e rideva alle sue battute e – sempre spontaneamente – la baciava ogni volta che si trovavano chiuse fra quattro pareti (contando anche una cabina telefonica) che razza di incapace fosse alla guida. Una volta però si era trovata costretta ad accompagnarla, utilizzando la propria auto, e Maride le aveva detto che non guidava affatto male.

«Da quello che mi dicevi avevo capito che fossi proprio inadatta.»

«Ma non è che non essere inadatti significa essere adatti.»

«Siamo in cerca di complimenti?»

Maride era la persona più gentile che conosceva. La più paziente, la più buona, la più coraggiosa, la più comprensiva; aveva un modo particolare di abbracciarla – o forse, banalmente, era Marta a non aver ricevuto molti abbracci in vita sua; in ogni caso era speciale – che non si sarebbe mai levata dalla testa. Questo pensava: se un giorno si fossero lasciate e non si fossero mai più riviste, le sarebbe rimasto impresso il suo modo di abbracciarla, le mani che scivolano dall’altezza della vita verso le scapole e poi tornano giù di nuovo. Avrebbe potuto commuovere chiunque, con quell’abbraccio, e non ne conosceva le potenzialità.

Si accorse che stava agitando di nuovo l’indice e il medio; per fortuna fu Maride a spezzare il silenzio.

«Scusami se prima ti ho aggredita così, non volevo dire niente, non volevo dire che c’era qualcosa che non andava.»

Vedeva chiaramente lo sforzo, ne percepiva l’entità, il peso in ogni parola.

«Stamattina a lavoro è successa una cosa» la interruppe.

Tanto valeva dirle tutto, così si sarebbe tolta il pensiero. Così Maride si sarebbe sentita utile. Per l’ennesima volta vedeva il suo viso e i suoi occhi dire che sì, la ascoltava e la capiva, ma Marta sapeva che dentro di sé in realtà pensava: «Dammi la forza, sii paziente, sii comprensiva, lo sai che ha un problema.» Raccontò brevemente l’episodio.

«Non le ho detto niente, capisci? Perché non le ho detto niente? Dovrei dirle qualcosa? Dovrei dirle che c’è un posto libero in Igiene degli alimenti?»

«Tanto per cominciare nemmeno lo sai, se c’è un posto libero in Igiene degli alimenti, e probabilmente non c’è.»

«Sì ma se ci fosse? Che razza di persona sono? Perché non le ho detto niente? Oh, che cosa stupida…»

«Non è una cosa stupida, si chiama istinto di conservazione, amor proprio, ambizione.»

«Ma quale ambizione, io nemmeno so se mi ci trasferirei, ad Igiene degli alimenti!»

«Forse anch’io non le avrei detto nulla.»

Marta sapeva che la frase sottendeva: «Io non ho nemmeno il tempo di chiedermi se le avrei detto nulla o meno».

Tacque. Erano al banco del fruttivendolo e lo osservavano raccogliere delle mele dalla cassetta e infilarle in un sacchetto marrone. Avevano adocchiato un casco di banane non ancora mature e chiesero se per favore poteva aggiungere anche quello.

«Domani dovrei dirglielo?»

Maride aspettò qualche secondo prima di rispondere, con un sospiro:

«Che cosa?»

«Di quello che mi ha detto oggi la veterinaria.»

«Sì, probabilmente dovresti.»

Non aggiunse altro. Maride era stanchissima, le spalle curve come se stesse trasportando l’intera macchina con la frutta nel bagagliaio e lei sul sedile anteriore; Marta era certa di valere più del telaio e della carrozzeria, in termini di peso. Era appena tornata dal lavoro ed aveva accettato di fare due passi con lei e ascoltare tutte quelle cose… certe volte le veniva in mente come quando da ragazza si sforzava di capire perché a sua madre importasse così tanto delle pulizie. Come quando le parlava delle tende da lavare e lei non faceva che chiedersi: «Per quale motivo si dovrebbero lavare le tende? Per quale motivo questo dovrebbe essere fonte di preoccupazione? Sono forse le tende il problema?».

Ma non poteva farci nulla, lei era davvero convinta che il più importante problema, la più assoluta priorità fosse in quel momento sentirsi dire che non era una persona cattiva per aver omesso alla sua collega l’eventualità di un posto vacante in Igiene degli alimenti. E Maride era se stessa da ragazza, solo con più pazienza e più comprensione di quanta non ne avesse mai avuta.

Salirono le scale del palazzo parlando di quel che avrebbero cucinato per cena. Una volta in casa, Maride la superò per andare in camera da letto a cambiarsi; mentre iniziava a sbottonarsi la camicia, Marta sentì lo scroscio dell’acqua corrente.

«O se no potremmo ordinare una pizza. Ti va una pizza, stasera?»

Non ottenne risposta e non fece in tempo a voltarsi che si sentì abbracciare da dietro e baciare sul collo. Si domandò se fosse sudata e si rispose che sì, doveva esserlo.

«Scusa, sono sudata, che schifo…»

Di nuovo non ottenne risposta. Si sentì prendere per i fianchi, rivoltare, e di colpo fra la sua camicia e i suoi pantaloni spuntò un lembo di pelle. Pensò al modo in cui la sua pancia si sdraiava fra il suo seno e il pube (non è che si sdraiava, si stravaccava), stava lì sospesa per inerzia, senza vigore, abbandonata. Sentì la mano di Maride risalire sulla sua schiena verso i ganci del reggiseno – non era uno dei suoi abbracci migliori, no. Immaginò le unghie laccate di rosso scuro che aveva intravisto prima graffiarle piano la spalla.

Pensò di facilitarle le cose aprendosi la camicia sul davanti e fu sollevata quando riuscirono insieme a sfilarla e lanciarla sul materasso. Poi, con una punta di panico, si disse: «Non sto facendo niente, non la sto aiutando.»

Pensò che avrebbe dovuto ricambiare. Pensò che non le andava tanto di ricambiare, ma che doveva ricambiare. Pensò che avrebbe tanto voluto non pensare.

Ora erano stese sul letto a cercare di togliersi i pantaloni e le scarpe a vicenda. Immaginò la giornata che doveva aver avuto Maride; la immaginò seduta alla sua scrivania a prenotare gli appuntamenti del dottore, con tutti i post-it attaccati al mobile, i colori dettati da una segnaletica precisa: verde per i numeri utili da avere a portata di mano, giallo per i cambiamenti di orario e le annotazioni riferite ai pazienti, rosa per le comunicazioni che le rilasciava il dottore. Un giorno Marta l’aveva raggiunta in ufficio dopo averle proposto di andare a pranzare assieme ed aveva potuto vederla, la scrivania. C’era anche una loro foto nascosta fra il monitor del computer e la base del cordless. Ricordò che sul momento l’aveva trovata così carina…

Spostò i capelli di Maride dalla guancia perché non la impicciassero; era con la testa fra le sue gambe. Le venne in mente quando aveva scoperto che Io e Annie avrebbe dovuto intitolarsi Anedonia e chissà perché c’era rimasta molto male. No, in realtà sapeva a che cosa stava pensando. Da quanto tempo erano in quella situazione? Con lei sdraiata a pancia in su, intendeva. Due minuti, cinque minuti, sette minuti? I fatidici tredici minuti? Forse ci stava mettendo troppo tempo. Forse non ce l’avrebbe fatta.

Ripensò a Maride seduta alla scrivania tutto il giorno che tornava a casa e trovava la sua compagna (ripugnava abbastanza questa parola, ma non quanto detestava il termine fidanzata) nel loro garage. A fare cosa? Niente! E non faceva altro che chiederle se secondo lei non fosse una persona orribile per non aver detto alla sua collega di piano che giravano voci secondo cui si sarebbe presto liberato un posto in Igiene degli alimenti; se non era una persona orribile allora doveva essere per forza una persona vigliacca e forse tra le due cose era meglio essere una persona orribile, considerò. O forse no, forse l’essere vigliacca era qualcosa più alla sua portata.


Avrebbe finto, anche se sapeva che poi si sarebbe pentita per averlo fatto. Del resto non correva il rischio di litigi nel caso Maride se ne fosse accorta: non ne aveva nemmeno voglia, però la giornata seduta alla scrivania e la passeggiata fino al fruttivendolo avevano il loro peso. Perciò finse.


Pensò a quanto sarebbe stato bello poter galleggiare su uno specchio d’acqua senza avere nessuno fra i piedi e il vuoto in testa… 

Nessun commento:

Posta un commento